C'è un'immagine che riassume bene, l'aria che si respira. Martedì 31 maggio, il giorno dopo i ballottaggi choc della nuova primavera italiana, ore 19, Giardini del Quirinale. Una lunga fila composta ma confusa - gli italiani non sanno stare in fila... - attende di stringere la mano a Giorgio Napolitano, omaggio alla corona laica, all'uomo che simboleggia l'ultimo punto di equilibrio in un momento caotico e delicato del Paese.
Più in là, assistito dall'amorevole Gianni Letta, Silvio Berlusconi trascorre il suo day after in una solitudine appena temperata dal cauto avvicinarsi dei suoi cari, l'inner circle del Cavaliere. Sul suo volto, una passata eccessiva di fondotinta trascolora fino a degenerare sotto gli ultimi raggi di sole del caldo maggio romano.
Sfilano due Italie. Di là il Paese che vuole cambiare; di qua un esercito in rotta che confida nell'ennesima resurrezione, stavolta difficile se non impossibile.
E al seguito di un capo che ha perso lo smalto della travolgente discesa in campo. Qualcosa si è rotto per sempre, e sarebbe miope fare finta di niente.
Gli sconfitti, per esempio, ripetono che si è trattato pur sempre di elezioni locali, che in tempi di crisi chi governa viene punito e che dunque basta riprendere convinti la strada delle riforme per rimettere le cose a posto. I vincitori, invece, cercano di appropriarsi di una vittoria conquistata quasi a loro insaputa e inseguono ragionamenti sulle alleanze prossime venture che certo non sono state né la carta vincente né la motivazione che ha spinto gli italiani al voto contro Berlusconi.
Tanto per capirci, a Cagliari, lontano dai riflettori, la sinistra ha vinto con un certo Massimo Zedda, 35 anni, di professione precario, votato proprio perché non ha niente a che fare con le nomenklature dei partiti. Chi ci avrebbe scommesso due lire. Sorpresa che dovrebbe far riflettere un po' per la novità, l'azzardo, l'ironia. Ma anche Napoli e Milano, seppure con le diversità tipiche che distinguono la capitale della borghesia produttiva e illuminata del nord ricco dalla città del sud che si è sempre inchinata a ribellismo e capipopolo, sembrano marciare nella stessa direzione.
Qui e là, infatti, il voto ha premiato personaggi nuovi, pur se solidamente legati alla loro storia; che non si riconoscono nell'azionista di riferimento del centrosinistra, il Pd, ma nemmeno nelle forze che pure li hanno indicati: Pisapia non è certo un rifondatore comunista, e De Magistris non è un cacicco di Antonio Di Pietro. Ancora, a Napoli e a Milano i due trionfatori hanno portato ai seggi giovani e persone che altrimenti non sarebbero mai andate a votare.
Entrambi, poi, non possono essere catalogati secondo le categorie tradizionali del politichese all'italiana, ma nemmeno in quelle care a Berlusconi che divide gli elettori in amici e in comunisti stupidi: non si può dare del gruppettaro a un noto avvocato milanese cresciuto alla scuola del socialismo perbene e garantista di Aldo Aniasi o Carlo Tognoli; né definire Masaniello un magistrato figlio e nipote di magistrati. Senza contare, infine, che il comunista e il capopolo hanno conquistato per sé i consensi più diversi: giovani e anziani, tradizionalisti e grillini, moderati e indignati. E comunque è stato qualcosa di più di una corsa a sindaco se lo stesso vento ha soffiato a Mantova e a Torino, a Trieste e a Bologna, a Novara, a Varese, ad Arcore.
Ovunque si respira un'aria nuova, come di liberazione: dai toni ossessivi di un governo ad personam, dalle bugie urlate, dalle inconcludenze di una maggioranza che nacque gridando meno tasse per tutti, e ora lancia un federalismo fiscale che rischia di tradursi - avverte Mario Draghi - nella beffarda sommatoria tra nuove tasse locali e vecchie nazionali. Insomma, un'Italia s'è svegliata, convinta che sia possibile chiudere una lunga, pesante stagione di ansie e paure, di strepiti e risse, di minacce e di esagerazioni, di liti senza costrutto tra Berlusconi e Tremonti. Bisognerebbe capirla e ascoltarla. Forza Italia. Quella vera.