Il "popolo senza Stato" è parte importante dell'opposizione ad Assad. E potrebbe aiutare i fratelli che stanno in Turchia
Europa e Medio Oriente, i due ecosistemi geopolitici che confinano con la Turchia, si stanno sgretolando. Ma se le trasformazioni in atto nei paesi arabi pongono la Turchia al centro della scena, il pericoloso indebolimento del suo ancoraggio europeo rischia di creare tensioni e ostilità che possono minarne i fragili equilibri etnici e religiosi. L'estromissione di Saddam Hussein, dopo l'invasione americana dell'Iraq, ha aumentato il peso degli arabi non sunniti e dei sunniti non arabi (ovvero i curdi) all'interno del paese, ed ha alterato i rapporti di forza nella regione, spingendo tutte le minoranze del mondo arabo, e in special modo gli sciiti del Golfo, a rivendicare maggiori diritti politici.
IN SIRIA , la rivolta contro un governo oppressivo e sanguinario ha assunto una dimensione più geopolitica e ideologico-religiosa a causa dell'alleanza fra l'Iran e il regime baathista. La lotta per il potere al suo interno si è trasformata ormai in un conflitto per la conquista dell'egemonia e del controllo sull'intera regione. E il veto posto da Russia e Cina a un intervento dell'Alleanza Atlantica e dei suoi partner locali per rovesciare il regime di Assad ha aggiunto una dimensione globale allo scontro. La Siria era il fulcro della politica della Turchia in Medio Oriente. Sebbene ideologicamente incompatibili, i governi di questi due Paesi hanno beneficiato del miglioramento dei loro rapporti. Ankara forniva una copertura al regime di Damasco. Gli scambi commerciali si erano moltiplicati. Le richieste di visti venivano soddisfatte. Progetti comuni erano stati annunciati e i due leader stringevano rapporti cordiali. La Turchia ha creduto di poter convincere il regime siriano a tener conto delle aspirazioni dei ribelli. Ma dopo quasi sei mesi di inutili tentativi il governo di Ankara ha voltato le spalle a Bashar al-Assad ed è diventato il più infuocato sostenitore della sua estromissione. Il quartier generale del Consiglio Nazionale Siriano (la principale piattaforma degli oppositori) si trova in Turchia. E così pure il comando del Libero Esercito Siriano che dispone di campi di addestramento sul suo territorio.
IL GOVERNO turco si è schierato fermamente con l'opposizione siriana. Anche se Ankara ha fornito l'impressione di essere più vicina alla componente dei Fratelli Musulmani, com'era già accaduto nel caso dell'Egitto e della Tunisia. Questa percezione genera dubbi sull'ostentato ecumenismo laico della Turchia che ufficialmente cerca di mantenere un attento equilibrio fra le diverse fazioni, come ha voluto mostrare prima dello scoppio delle rivolte arabe. Questo rischia di coinvolgerla nelle sempre più intense diatribe fra gruppi di diverse tendenze, con l'effetto di esacerbare, per contraccolpo, i suoi contrasti interni.
Infine, pur se la rivolta popolare contro un regime oppressivo è considerata sacrosanta dai turchi, non si è forse tenuto conto di tutte le conseguenze che potrebbero derivare dal suo cambiamento. Uno degli esiti della trasformazione della Siria potrebbe essere il rafforzamento politico dei curdi che hanno già avviato un esperimento di autogoverno nelle zone in cui costituiscono la maggioranza della popolazione. Per troppo tempo, i regimi nazionalisti arabi hanno negato loro i diritti fondamentali di cittadinanza. Ma ciò che preoccupa la Turchia è che i separatisti del PKK (il Partito dei Lavoratori del Kurdistan), è strettamente legato in Siria al Partito dell'Unione Democratica (PYD), che controlla la maggior parte delle zone liberate insieme a una più ampia coalizione di partiti curdi in Siria. Questa situazione ha spinto il premier turco Recep Erdogan a dichiarare che il suo Paese «non permetterà a un gruppo terroristico di installare campi di addestramento nel nord della Siria».
NONOSTANTE la spavalderia e la concentrazione di truppe al confine con la Siria, le opzioni militari della Turchia, salvo nel caso di un attacco frontale del PKK da oltrefrontiera, sono limitate. Così, il suo primo ministro si è recato nel Kurdistan iracheno per ottenere il sostegno e l'assistenza del leader curdo iracheno Massud Barzani, nell'intento di circoscrivere l'influenza del PKK. Molto meglio sarebbe invece se il governo di Ankara tornasse a ricercare una soluzione politica al problema dei curdi in Turchia attraverso una maggiore apertura dello spazio politico del Paese. Questo sarebbe molto più utile del rispolveramento di vecchi piani, già sperimentati e fallimentari, miranti a una vittoria militare definitiva contro il PKK, vista come precondizione di ulteriori iniziative politiche, e all'incarcerazione di migliaia di attivisti curdi.