Il conflitto nel mar cinese frena scambi commerciali e investimenti tra Tokyo e Pechino. Perché le Senkaku contano tanto?

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L'evoluzione più pericolosa registrata in Asia orientale nel 2012 è stata senza dubbio il grave deterioramento dei legami tra Cina e Giappone. Tutto è iniziato con la clamorosa iniziativa del governatore nazionalista di Tokyo, Shintaro Ishihara, di aprire una sottoscrizione per acquistare le isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi) nel Mar cinese orientale, contese tra Giappone e Cina. Per bloccare Ishihara il governo giapponese nell'agosto scorso ha deciso di "nazionalizzare" le isole, acquisendole dai privati di cui erano proprietà. Tokyo non ha calcolato però che questa iniziativa poteva essere interpretata da Pechino come una mossa strategica per rafforzare giuridicamente le rivendicazioni giapponesi circa la sovranità delle isole. Indignato, il governo cinese, pur timoroso delle manifestazioni di piazza, ha fomentato la protesta antigiapponese in tutta la Cina. Alcune manifestazioni sono sfociate in atti di violenza contro attività commerciali di proprietà giapponese. 

IL GOVERNO CINESE ha inviato inoltre navi disarmate nelle acque territoriali dell'arcipelago conteso con incarico di "normale pattugliamento" e, mossa potenzialmente ancor più rischiosa, ha fatto sorvolare le isole da ricognitori civili. I giapponesi hanno reagito facendo alzare in volo i caccia F-15. Si concretizza così l'eventualità di un grave incidente. La Cina ha deciso di seguire una strategia di "deterrenza offensiva", secondo un modulo sperimentato nelle situazioni di crisi internazionale, con l'intento di portare l'avversario a recedere. In questo caso è probabile che la Cina tenti di spingere il Giappone a un negoziato, finora sempre rifiutato da Tokyo, che considera indisputabile la sovranità giapponese sulle isole. Arrivare a una trattativa di qualunque genere costituirebbe per la Cina un enorme successo diplomatico.

Questa strategia però finora non ha funzionato. L'establishment politico giapponese si è trincerato dietro un compatto fronte anti-cinese. Il Partito liberal democratico conservatore, dopo aver perso il potere tre anni fa, ha stravinto le elezioni parlamentari di metà dicembre sotto la guida del nazionalista Shinzo Abe, che in campagna elettorale ha sostenuto posizioni anticinesi. Non è detto però che Abe persegua la linea dura nei confronti della Cina durante il suo mandato. La sua massima priorità è riportare il Giappone ai passati livelli di crescita. Da quando ha assunto l'incarico ha ammorbidito i toni anticinesi e sembra più interessato ai temi economici che alla disputa su un paio di scogli.

RASSICURA IL FATTO che Pechino sembra ansiosa di trovare una soluzione per uscire dalla vicenda a testa alta. Anche Xi Jinping usava aspri toni antigiapponesi prima di assumere formalmente l'incarico di capo del Partito comunista cinese e il comando delle forze armate. Una volta al potere non si è pronunciato più di tanto sulla disputa delle isole. Ora la Cina deve ridurre la tensione e può farlo solo bloccando immediatamente i voli di ricognizione sulle isole e riducendo la frequenza dei pattugliamenti in mare, così da inviare al nuovo governo di Tokyo un segnale positivo e dare il via a un processo di risanamento diplomatico.

NÉ PECHINO NÉ TOKYO possono permettersi un confronto prolungato su un arcipelago inutile (le stime sul patrimonio di risorse energetiche sfruttabili delle isole sono esagerate). Gli scambi commerciali tra in due paesi nel 2011 hanno toccato i 340 miliardi di dollari. La Cina è destinataria del 20 per cento del totale delle esportazioni giapponesi e il 10 per cento di quelle cinesi va al Giappone. La crisi provocata dalla disputa sulle isole ha già danneggiato i rapporti economici tra i due paesi. Da dicembre le esportazioni del Giappone verso la Cina sono precipitate e la stessa sorte toccherà ai cinesi in futuro. Molte imprese giapponesi hanno ridotto i piani di investimento in Cina e le esportazioni cinesi in Giappone subiranno una flessione legata ai sentimenti anticinesi di quel Paese.

Un potenziale conflitto militare sarebbe disastroso per entrambe le nazioni, ma in particolare per la Cina, che potrebbe subire la superiorità delle forze aeree e navali giapponesi, meglio equipaggiate e addestrate. Nel conflitto potrebbero essere coinvolti anche gli Usa, che si sono dichiarati obbligati per trattato a intervenire in difesa delle isole. Data l'alta posta in gioco la speranza è che il buon senso infine prevalga sui bollenti spiriti.