Le tensioni tra le due potenze dell’Asia ricordano quelle in Europa nel 1914. C’è solo da sperare che la storia non si ripeta
La Grande guerra (1914-1918) fu una catastrofe per l’Occidente. Fece precipitare l’Europa in un massacro e in una distruzione massiccia e senza senso, eppure, un secolo più tardi è ancora attuale la domanda sulla possibilità che un’analoga tragedia colpisca il mondo. La regione dove i dissidi tra grandi potenze potrebbe innescare un’importante guerra è l’Asia Orientale. Una pericolosa rivalità geopolitica, che ricorda in maniera inquietante l’Europa alla vigilia del 1914, sta avvicinando sempre di più Cina e Giappone ad aperte ostilità. Le similitudini tra l’Europa di un secolo fa e l’Asia Pacifica odierna colpiscono al punto da aver spinto il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, a spiazzare i luminari, che recentemente si sono riuniti al World Economic Forum a Davos, paragonando apertamente - e senza concessioni alla diplomazia - la Cina alla Germania e il Giappone alla Gran Bretagna d’inizio secolo XX. Anche se Abe è stato attento a evitare previsioni sull’eventuale scoppio di una guerra tra gli storici rivali, le sue parole hanno messo a disagio la comunità internazionale e spinto molti a esaminare le possibilità che una catastrofe della scala della Grande guerra metta a ferro e fuoco l’Asia Orientale, la regione economicamente più dinamica del mondo.
Alcuni trend geopolitici certi delineano all’orizzonte delle difficoltà. Nella regione si è verificato da poco un rivoluzionario spostamento dell’equilibrio di potere. La Cina ha superato il Giappone come potenza economica. La capacità e il ritmo con cui l’economia cinese cresce hanno consentito a Pechino di incrementare consistentemente la spesa militare. I 148 miliardi di dollari del budget ufficiale cinese per la difesa sono più del doppio dei 65 miliardi giapponesi. Si stima tuttavia che la spesa militare cinese effettiva sia almeno il doppio di quella dichiarata.
Lo spostamento di potere è accompagnato da un drastico acuirsi delle tensioni bilaterali attorno a una serie di punti di attrito. La causa principale del recente deterioramento dei rapporti sino-giapponesi è la disputa territoriale incentrata sulle disabitate isole dell’arcipelago Senkaku/Diaoyu nel Mar della Cina Orientale. È una disputa territoriale di relativa importanza che, però, è lievitata a prova generale della volontà nazionale di affermazione. Entrambe le parti hanno talmente alzato la posta che trovare una soluzione che salvi la faccia ai due contendenti appare ora quasi impossibile.
Nel frattempo, al fine di rafforzare la propria legittimità, lo Stato monopartitico cinese, sentendosi all’interno sempre più minacciato dalle tensioni sociali, da un’economia che rallenta e dalla pressione sostenuta delle forze filo-democratiche, ha continuato a soffiare sul fuoco del nazionalismo. Il fulcro di quello cinese è, purtroppo, la storica aggressione del Giappone contro la Cina. I media cinesi, a controllo statale, insistono da tempo sulla demonizzazione del Giappone. I canali della tv cinese hanno trasmesso, solo nel 2012, più di 70 serie di nuova produzione che hanno come argomento la guerra sino-giapponese (1937-1945). Stando ai sondaggi, l’intensa propaganda anti-giapponese sta suscitando una diffusa antipatia verso il Giappone. Secondo uno studio del Pew Institute di luglio 2013, il Giappone “non piace” al 90 per cento dei cinesi. Questa animosità è ovviamente reciproca. Secondo un sondaggio di agosto 2013 di Genron NPO, un istituto di sondaggi giapponese, la Cina non piace al 98 per cento dei giapponesi.
In questo contesto preoccupante, Pechino ha recentemente rafforzato il sentimento del suo popolo stabilendo una “Zona d’identificazione della difesa aerea cinese” che si sovrappone a quella giapponese e facendo fare rotta sulle isole contestate ad alcune navi della sua Marina. Le due misure aumentano il rischio di un incidentale militare.
La domanda è ora se uno scontro incidentale possa portare a una vera e propria guerra tra Cina e Giappone e la risposta al quesito l’hanno gli Stati Uniti, l’unica potenza in grado di scoraggiare la Cina dal muoversi e di ottenere una reazione misurata dal Giappone. Washington è alleata di Tokyo ed è legalmente obbligata a difendere il suo territorio. Tenendo presente la schiacciante superiorità americana nel mare e nell’aria e sapendo di perdere, per la Cina sarebbe folle lasciarsi coinvolgere in una crisi con gli Stati Uniti. I trasparenti avvertimenti di Washington dovrebbero dunque bastare a tenere a bada Pechino. Tuttavia, la capacità americana di opporre un deterrente ad azioni irresponsabili cinesi non è totale per via della componente di “azzardo morale” che essa implica: il governo giapponese, guidato ora da Abe, un nazionalista convinto e deciso a tenere testa alla Cina, potrebbe agire contando su un intervento americano in qualunque circostanza. Una tale fiducia potrebbe rendere Tokyo meno cauta nel gestire le occasionali provocazioni cinesi. A quel punto, una reazione sbilanciata giapponese sarebbe interpretata da Pechino come prova della determinazione giapponese e della necessità di una risposta ferma.
Questo tipo di dinamica aprirebbe lo scenario nel quale un incidente di poca gravità è in grado di scatenare una crisi e una successiva escalation, perché entrambi gli attori vedrebbero qualsiasi concessione come una umiliazione nazionale.
Richiamando in mente gli eventi che portarono alla Grande Guerra, è inevitabile cogliere le analogie. “La storia non si ripete”, avvertì Mark Twain, “ma fa rima”. Considerando la catastrofe che seguì a un’altra guerra sino-giapponese, il nostro auspicio è che la storia questa volta nell’Asia Pacifica non faccia nemmeno rima.