Bruno Manfellotto

Ora però non dimentichiamoli

Un’altra copertina su Lampedusa: perché la prima rappresentava la speranza, la seconda l’ultimo viaggio, la fine del sogno. Una scelta per battere l’indifferenza mentre continua la raccolta di firme per il Nobel all’isola. Intanto qualcosa si muove...

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C’è una grammatica non scritta nel giornalismo dei settimanali che sconsiglia, perfino vieta di scegliere per due settimane di fila lo stesso tema di copertina. Noi l’abbiamo infranta, volutamente. Ed è giusto spiegare qui il perché.

Guardate con attenzione la foto di Massimo Sestini in copertina, chiedevo la scorsa settimana da questa stanza dove incontro i lettori de “l’Espresso”. E guardatela poi in tutta la sua drammaticità nelle pagine che seguono, aggiungevo. Da allora sono passati solo pochi giorni, ma sono seguiti avvenimenti importanti. Il più drammatico è stato certamente l’ennesimo naufragio nel mare di Lampedusa in cui venerdì 11 ottobre hanno perso la vita altri 34 migranti, uomini donne e bambini. Nelle stesse ore sulla piccola isola, suo malgrado capitale europea dell’immigrazione anni Duemila, si ultimava la tragica conta dei morti della tragedia precedente, quella del 3 ottobre: 387.

Questa settimana sono costretto a ripetere l’invito: osservate l’immagine di copertina, questa volta firmata da Claudio Palmisano, e prima di soffermarvi sulle altre foto – che raccontano l’impegno della Marina per soccorrere e aiutare i profughi – mettetela a confronto con quella passata. Nella prima, da un barcone lasciato alla deriva a poche miglia dalla costa dai trafficanti di morte, si levano sguardi di uomini stanchi. Qualcuno abbozza un sorriso di fiducia, altri fanno spazio a una donna incinta perché possa sdraiarsi, immagine perfino simbolica di un futuro che tutti si augurano migliore. La speranza di vivere vince sulla paura di morire.

E ora guardate l'altra: una nuova tragedia si è consumata, corpi senza nome sono stati composti, bare di legno chiaro distinte solo da un numero sono state allineate sulla tolda di una nave che le trasporterà altrove in Sicilia, lontano da un’isola che non può ospitare altri cadaveri. Qua e là qualcuno ha deposto un fiore.

Ecco, c’è un filo rosso che unisce le due immagini, ciascuna con la sua drammatica intensità: in una si affaccia la vita; l’altra celebra la morte. E insieme racchiudono il significato di una tragedia che si consuma da anni sotto i nostri occhi e sulla quale finalmente si comincia a riflettere.

Il governo italiano ha appena raddoppiato militari e navi nei mari di Lampedusa: solidarietà ed esigenze di sicurezza. Il socialdemocratico tedesco Martin Schultz, in corsa per la presidenza del consiglio europeo, ospite della “Repubblica” a Venezia, ha lanciato un appello ai popoli europei perché siano solidali con lo sforzo italiano. Dopo quello che è successo a Lampedusa anche Hollande ha chiesto nuove politiche per l’immigrazione. E per iniziativa di Enrico Letta se ne parlerà al prossimo Consiglio europeo, il 25 ottobre a Strasburgo. Insomma, pur se lentamente qualcosa si muove.

Ma la strage è lunga e gli ostacoli da superare sono ancora tanti. Il primo muro da abbattere è quello dell’indifferenza che comincerà ad alzarsi quando con l’autunno il flusso via mare rallenterà. C’è poi un’altra forma di indifferenza, più sottile e burocratica, in virtù della quale per esempio la sede del Frontex, l’organismo internazionale che si occupa delle frontiere, è Varsavia, il posto più lontano dai luoghi dove si consuma il dramma dell’immigrazione. Per questo abbiamo chiesto ai lettori di firmare l’appello dell’Espresso per candidare Lampedusa al premio Nobel per la pace: già 60 mila hanno detto sì, e continueremo. È il modo che abbiamo scelto per non smettere di ricordare chi scappa da fame, guerre e persecuzioni e chi si impegna giorno per giorno ad aiutarli e assisterli.

Non basta ancora, ci sono altri due impegni da onorare. Il primo è politico: riaprire immediatamente le trattative con i Paesi del Mediterraneo non solo per regolare i flussi e combattere i trafficanti di morte, ma anche per garantire i diritti essenziali di chi resta, di chi fugge e di chi vorrebbe rientrare. Il secondo è morale e civile: i centri di accoglienza non devono trasformarsi in piccoli lager. Ospitano uomini e donne, come noi.
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