Una frase aberrante e insensata di Silvio Berlusconi (“I miei figli sono come gli ebrei sotto Hitler”), pubblicata nell’ultimo libro di Bruno Vespa, ha guadagnato le prime pagine dei giornali e portato a scomodare gli interventi di illustri commentatori, studiosi e testimoni della Shoah. Questa sproporzionata attenzione pone seri interrogativi sul modo in cui si forma l’agenda pubblica, tanto più che contemporaneamente si sta svolgendo una vicenda ben più rilevante, che richiama anch’essa il tema del genocidio degli ebrei, ma che stenta a inserirsi nello spazio politico-mediatico. Il riferimento è all’emendamento che a metà ottobre era stato votato a larga maggioranza in commissione Giustizia al Senato in sede referente e che ampliava l’apologia di reato alla negazione dell’esistenza di crimini di genocidio e contro l’umanità.
L'emendamento richiamava il tema del negazionismo: la negazione della Shoah o una sua riduzione a un evento non sistematicamente pianificato e organizzato, come invece fu. Non è dunque un caso che il voto fosse giunto dopo la morte di Priebke e la diffusione del suo video-testamento e che fosse stata tentata un’accelerazione dell’iter del provvedimento dopo che il 16 ottobre, in occasione della commemorazione del settantesimo anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, Napolitano aveva espresso la propria fiducia in una sua veloce approvazione parlamentare. Dopo poco più di una settimana, però, era sopraggiunto un nuovo accordo che ridimensionava la portata dell’intervento, facendo del negazionismo una semplice aggravante dell’istigazione a delinquere e dell’apologia di reato, non più un reato in sé.
Così come l’impegno per la trasformazione del negazionismo in reato aveva trovato la sua principale ragione nell’emozione del momento, così il successivo passo indietro ha rappresentato semplicemente la reazione alla mobilitazione della Società italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, che ha denunciato il pericolo insito in simili provvedimenti per la libertà della ricerca e di espressione. Però il tutto è avvenuto senza che emergesse nel Paese un confronto pubblico all’altezza della questione in gioco, come è invece avvenuto altrove.
Al tempo stesso, i nostri parlamentari hanno proceduto in maniera dilettantesca (come ha notato lo storico Carlo Ginzburg) e hanno avuto bisogno che la loro brillante idea fosse da altri collocata in un più ampio contesto di principi, problemi interpretativi e conseguenze pratiche a loro ignoto.
Eppure, il tema della punibilità del negazionismo ha prodotto in Italia e a livello internazionale una discussione ricca di argomentazioni. In particolare, da più parti è stato evidenziato il carattere illiberale di una norma che trasforma l’opinione in reato e il pericolo insito nello stabilire la “Verità” per legge, spianando così la strada - come ha osservato il politologo Pietro Grilli - «a un potere che ci dice cosa dobbiamo dire e non dire, credere e non credere».
Altri, invece, hanno denunciato come la libera espressione di opinioni aberranti possa nutrire movimenti pericolosi per la stessa democrazia, non tenendo però conto del prezzo da pagare per sopprimere quella libertà (la codificazione della negazione di uno dei più importanti principi della democrazia liberale, la libertà di espressione), né della dubbia efficacia di un divieto di “pensiero” rispetto alla diffusione di quel pensiero, che anzi fornirebbe a chi lo diffonde l’aura del martirio.
Ma l’intera questione solleva anche un problema che è di particolare rilevanza nell’Italia di oggi, dove è forte la tendenza a una “giuridicizzazione della politica”. Come ha scritto recentemente la storica Liliana Picciotto, non si può rimanere inerti di fronte al negazionismo. Tuttavia, l’idea che ogni problema che si pone alla convivenza civile debba essere risolto per legge sottrae rilevanza ad altri strumenti come l’educazione e la diffusione della conoscenza e crea l’illusione che la legge possa sostituirsi alla responsabilità degli attori politici e sociali, come partiti, media o università.
I nostri parlamentari, come i loro colleghi di altri Paesi, si sono fatti rapire da questa pericolosa illusione. Dalla società civile è giunta per una volta una lezione alla politica e per una volta la politica, risvegliata dalla propria inconsapevolezza, l’ha ascoltata. Rimane il fatto che i “fondamentali” della nostra cultura politica e civile continuano a essere oggetto di discussione solo tra pochi “appassionati”.