Un giorno l’Italia s’è svegliata scoprendo una Manchester di due secoli fa a venti chilometri dalla Firenze del giovane Matteo Renzi. Non lo sapeva. O faceva finta di non sapere. Forse per non vergognarsi. Così, per rendersi conto che nella Prato 2013 l’immigrazione è diventata schiavitù, e il made in Italy in versione fabbrica clandestina la tomba di tutti i diritti essenziali, è stato necessario aspettare che sette cinesi di cui si fatica perfino a scoprire nome e cognome morissero in un capannone dove lavoravano, mangiavano, dormivano, vivevano.
Allo stesso modo l'Italia s’è ricordata all’improvviso che sotto la Terra dei fuochi sono sepolte tonnellate di veleni di mezza Europa solo perché dopo quindici anni di segreto di Stato sono state finalmente rese pubbliche le confessioni di un pentito dei casalesi, Carmine Schiavone: e prima, tutti all’oscuro? Così come d’un tratto si riparla di evasione fiscale solo perché è emerso ciò che si sa da sempre, e cioè che le famiglie di sei studenti su dieci dichiarano redditi falsi per non pagare le tasse universitarie. Ma va?
La tragedia di Prato, così assurda e così prevedibile, ci regala almeno due lezioni. Tristi. La prima è che un tessuto imprenditoriale destinato a crescere e a diventare virtuoso è invece andato via via sfilacciandosi fino a deperire irrimediabilmente. Qui era nato e s’era imposto uno dei tanti distretti all’italiana che avevano fatto di Prato la capitale del tessuto. Non che sfruttamento non ci fosse, prima. Ha raccontato al “Tirreno” l’attore Francesco Nuti, classe 1955, pratese doc: «Ho lavorato anch’io nelle tintorie di Prato, dove le macchine per la tintura andavano a centoquaranta gradi di pressione, c’era un calore esterno di settanta gradi, un tasso di umidità che raggiungeva il cento per cento e dove i colori, tipo il verde malachite, erano così volatili che ti si appiccicavano sulla pelle e li ingoiavi così facilmente che ti tingevano la faccia, il corpo, i polmoni... Sapete qual è la vita media di un tintore? Cinquant’anni».
Ma a differenza di altri distretti, Prato si è rifiutata di crescere nel modo giusto, né si sono imposti imprenditori leader capaci di guidare il sistema verso dimensioni competitive. No, i più hanno mollato macchine e capannoni ai cinesi che con costi di manodopera irrisori lavorano tessuti comprati non lì, ma in Cina. Il danno, la beffa. Oggi a Prato le imprese cinesi censite sono quasi 5mila, danno lavoro a 40mila cinesi,16mila dei quali residenti. Si calcola che il giro d’affari sfiori i due miliardi di euro, ma almeno la metà viaggia nella terza dimensione del nero e dell’illegalità.
Nella loro comunità blindata non si parla altro che il cinese, si osteggia l’integrazione e i documenti di identità passano di mano in mano, anche dai morti ai nuovi clandestini. Il tempo scorre davanti al tavolo da lavoro, alla macchina per cucire, alla pentola per colorare. Qui si vive e da qui si sparisce. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo ha lasciato il posto alla servitù della gleba, senza ribellione possibile.
Di fronte a quest’esercito straniero che non conosce regole né rispetto dei diritti elementari, a poco servono sindaco, vigili urbani, Finanza, che pure miracoli fanno e migliaia di baracche clandestine hanno già chiuso. Per fermare i nuovi schiavisti, per arginare il fenomeno - ecco la seconda lezione - ci vorrebbero controlli veri e assidui. Un’azione concordata che prevedesse irruzioni in capannoni fuorilegge, lotta all’evasione fiscale, accordi di governo con la casa madre, la Cina, che non ci sono.
Ci vorrebbe più stato, che invece è lontano, assente, cieco. Come, per anni, davanti alla vergogna della Terra dei Fuochi, o allo scandalo dell’evasione fiscale. Come lo era tre anni fa a Sarno quando si ribellarono centinaia di extracomunitari accampati in condizioni disumane in una fabbrica abbandonata; o due anni fa a Nardò quando gli immigrati si rivoltarono ai caporali. E come potrebbe succedere domani ovunque se, come ci ricorda il ministro Giovannini, l’inferno di Prato è niente di fronte a quello di Napoli o di certe enclave della Lombardia o del Veneto, della Puglia o della Calabria. C’è un’altra Italia, o forse è questa l’Italia che ci ostiniamo a non voler vedere.
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