Nella classifica mondiale della libertà economica l’Italia figura alle ultime posizioni. Da tutto il mondo un giudizio unanime: troppe tasse, leggi malfatte, giustizia lenta, altissima corruzione sono i nostri problemi

Con la caratteristica baldanza che lo contraddistingue, a metà marzo il premier Matteo Renzi si è posto l’obiettivo di far risalire l’Italia dal 65mo al 15mo posto delle classifiche di competitività stilate dalla Banca mondiale.

L’esternazione ricordava un famoso episodio di De Gaulle. Nel 1947, all’uscita dall’Eliseo, da una piccola folla di sostenitori qualcuno gridò «Mort aux cons! Mon Général» (traduzione per minori: morte agli imbecilli). «Vaste programme, Messieurs, vaste programme» replicò il Generale. Ecco, la risalita di 50 posizioni sembra un programma ambizioso, anche perché le riforme a ciò necessarie ancora non si vedono.

Ce ne fornisce conferma l’appena pubblicato Index of Economic Freedom 2014, compilato in partnership dalla Heritage Foundation e dal “Wall Street Journal”. L’Italia è messa maluccio: 86ma posizione nel mondo e, ancor più grave, 35ma in Europa su 42 paesi. Il punteggio è 60,9 su 100, appena sufficiente.

I parametri utilizzati dall’Index sono 10 e gli unici con un voto ottimo sono quelli ove la nostra adesione all’Unione europea non consente altrimenti. Ad esempio, per libertà di circolazione di merci e capitali il Belpaese se la cava benone, 88 e 85, nonostante il governo tenda a interferire quando sono in ballo acquisizioni di società strategiche (e il balletto Alitalia di queste settimane lo conferma). Punteggi buoni si registrano in aree come la stabilità monetaria (e ci mancherebbe, in mano come siamo alla Bce) e nella libertà di iniziativa economica, nonostante i tempi biblici per intraprendere un’attività.

Dove si comincia a scendere è nella regolamentazione bancaria e finanziaria, piuttosto intrusiva già a livello europeo e peggiorata in casa nostra dalle interferenze politiche. Stiamo male quanto a tasse (benché la Heritage non tenga conto dell’enormità pagata dai fessi onesti) ed efficienza del mercato del lavoro, oltre che nella difesa dei diritti di proprietà. Non si tratta solo delle manie da esproprio proletario della giunta Pisapia a Milano, ma del fatto che la proprietà intellettuale è scarsamente protetta (siamo la patria della contraffazione) e soprattutto pesa la lentezza e l’imprevedibilità del sistema giudiziario.

Infine l’inferno: il livello di corruzione è da paese sottosviluppato e la spesa pubblica è la voce peggiore in assoluto, evidentemente sia in qualità che quantità.

Queste classifiche a volte vengono commentate con un’alzata di spalle: sarebbero espressione di un pensiero unico consustanziale ad una logica mercatista. Può darsi. Fatto sta che l’Index mostra una correlazione assai significativa tra libertà economica e livello di istruzione, reddito pro-capite, salute e protezione dell’ambiente. I paesi più liberi sono i più ricchi oppure quelli che sono cresciuti di più, come il Cile o le isole Mauritius, 7mo e 8ve in classifica. Le nazioni più povere hanno un livello infimo di libertà oppure sono in guerra. D’altronde, le prime sei posizioni sono tenute da Hong Kong, Singapore, Australia, Svizzera, Svezia (con tanti saluti a chi esalta la socialdemocrazia nordica) e Canada: nazioni istruite, ricche e civili.

Peraltro, per l’Italia il giudizio è unanime. Doing Business della World Bank, il Rapporto Fraser, quello sulla competitività del World Economic Forum, l’Indice delle liberalizzazioni dell’Istituto Bruno Leoni: tutti ci rimproverano le medesime storture, vale a dire burocrazia, alte tasse, mercato del lavoro inflessibile, spesa pubblica pletorica, regolamentazione soffocante, inefficienza della giustizia. E se l’economia italiana è quella che cresce di meno al mondo negli ultimi vent’anni, può darsi che un qualche legame con i nostri deludenti posizionamenti ci sia.

Se vuole arrivare al 15mo posto nel 2018, quindi, Renzi non ha tempo da perdere. Finché studia un vaste programme che incida profondamente sul nostro sistema, potrebbe ingannare il tempo privatizzando un po’ di aziende pubbliche: un impegno molto più semplice di quello richiesto al Generale De Gaulle.

twitter @aledenicola
adenicola@adamsmith.it