Per il pluralismo informativo bastano concorrenza e antitrust. Per i programmi “di servizio” si può pensare a una fondazione. Tutte le soluzioni possibili portano a una stessa conclusione: bisogna vendere la tv pubblica

Ad aprile sembrava che per la Rai fioccassero le buone notizie. Il consiglio di amministrazione, infatti, aveva appena approvato il bilancio 2013 con un utile di 5,3 milioni di euro invertendo il risultato in rosso di 244 milioni dell’anno precedente. Certo, la percentuale di ricavi provenienti dal canone rispetto al totale si era ulteriormente accresciuta, essendosi contratta la pubblicità e lievemente aumentato l’incasso (+ 0,4%) da parte dei contribuenti. In totale, su poco più di 2,7 miliardi di ricavi, ben 1,75 provengono dal canone e il resto da spot e altre entrate commerciali. Inoltre, a causa degli esborsi per aggiudicarsi i diritti di trasmissione dei Mondiali, la chiusura in perdita del 2014 era un fatto praticamente certo. A fronte di ciò, però, il direttore generale Luigi Gubitosi poteva permettersi la soddisfazione di rilevare come il ritorno in utile fosse stato determinato tutto da risparmi sulle spese (in parte ottenuti con riduzione di personale) e ironizzare sul fatto di aver sbagliato a non scommettere con Grillo che aveva dato per certo un rosso di 400 milioni (ma si sa, finché non verranno adottate le stampanti 3D per preparare le scenografie, il leader dei 5Stelle rimarrà pessimista).

Si capisce allora come la decurtazione di 150 milioni di euro imposta da Renzi sia arrivata come uno shock, creando in alcuni casi veri e propri fenomeni di panico. Il premier, per nulla colpito (e col senno di poi ha avuto ragione) dagli annunci di scioperi, ha tirato dritto, annunciando riforme della governance e invitando la dirigenza a vendere Raiway (la società proprietaria della rete di trasmissione e diffusione del segnale Rai) per coprire il buco causato dal taglio. Purtroppo il discorso è impostato nel modo sbagliato. Prima di tutto, il sacrificio di 150 milioni richiesto alla Rai è un’ una tantum da coprire con la dismissione obbligata di un bene il cui prezzo, vista la situazione di emergenza, crollerà, vendendo peraltro a un privato una società monopolista e monopsonista (con un unico cliente): un pasticcio.

Inoltre, il problema della Rai è l’essere di proprietà dello Stato con le conseguenze negative che ne conseguono in termini di lottizzazione e di sprechi (anche rispetto ad altri enti radiotelevisivi pubblici: basta leggersi l’interessante confronto che Roberto Perotti ha fatto su “LaVoce”.info con i costi e gli stipendi della Bbc), mortificando le eccellenti professionalità che pure lavorano al suo interno.

La flebile difesa del cosiddetto “partito Rai” è che essa gestisce un servizio pubblico per il quale è necessario il pagamento del canone e la proprietà pubblica. Ebbene, prima di tutto il servizio pubblico è indefinito: di che si tratta? Del pluralismo dell’informazione? Leggi antitrust e sulla par condicio, nonché la presenza di vari operatori in concorrenza assicurano meglio delle nomine governative il pluralismo.

Parliamo forse di “Protestantesimo” o “A sua immagine”? Possono diventare parte di un obbligo di servizio pubblico remunerato e messo all’asta tra le varie reti. “Linea verde” o “Passepartout” (peraltro sospeso) o i programmi di Piero e Alberto Angela sono tranquillamente producibili da una televisione commerciale.

Se tuttavia vogliamo proprio esagerare, assegniamo anche un tot di programmi di arte, storia e musica nel pacchetto di servizio pubblico da mettere all’asta. Oppure, stacchiamo uno o due canali del digitale terrestre, li affidiamo a una fondazione i cui amministratori siano nominati, che so, dall’Accadema dei Lincei, con il compito di trasmettere quel genere di programmi, finanziandoli con lo 0,5% dei ricavi del mercato televisivo (che, essendo di circa 7/8 miliardi, equivarrebbe a ben 40 milioni!).

Insomma, le soluzioni sono molteplici, ma portano ad un unico risultato: vendere la Rai, contribuendo ad abbassare il debito pubblico e togliendo un elemento di perenne querelle del dibattito politico, nonché abolire il canone, sgravando i cittadini da un inutile balzello ed evitando l’usuale umiliazione degli stolti che lo pagano rispetto al sostanzioso numero di furbi che lo evadono.

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