Giusto un anno fa di questi giorni un’inchiesta giornalistica su scala europea (vedi “l’Espresso” 45 del 2014) portava allo scoperto lo scandalo cosiddetto LuxLeaks. Vale a dire quello dei più che generosi sconti tributari concessi dal governo lussemburghese a una nutrita schiera di multinazionali per attirarne le sedi fiscali nei propri confini, con conseguente pregiudizio per l’erario dei paesi nei quali le medesime aziende svolgevano la loro attività operativa. Il botto fu particolarmente clamoroso perché esplose proprio nel bel mezzo del percorso di insediamento al vertice della Commissione di Bruxelles di Jean-Claude Juncker, già per lungo tempo primo ministro del Lussemburgo.
Non mancarono reazioni anche furibonde ma i cui risultati oggi appaiono del tutto deludenti. Meglio di altre istituzioni europee si è mosso il parlamento di Strasburgo insediando una Commissione speciale di indagine sulle pratiche di elusione ed evasione fiscale i cui lavori dovrebbero fra poco concludersi. Ma il suo rapporto non potrà fare altro che avanzare proposte di nuove misure alla Commissione Juncker. Un po’ più concretamente lo stesso parlamento ha votato in luglio una proposta di direttiva col fine di obbligare le multinazionali a rendere di pubblico dominio le tasse che pagano in ogni paese in cui abbiano i loro stabilimenti.
Nel frattempo il Consiglio dei ministri delle finanze (Ecofin) ha raggiunto un’intesa per lo scambio di informazioni sui “tax rulings” ovvero sull’insieme degli accordi fiscali che i singoli Stati offrono finora sottobanco alle grandi aziende per attrarle in casa propria. Fuori dal territorio Ue, perfino l’Ocse ha spezzato una lancia in favore della trasparenza ma - attenzione - a gittata ben delimitata: scambio d’informazioni sì, ma soltanto tra autorità fiscali. Il pubblico - ovvero la generalità dei contribuenti - non deve saperne niente!
A spazzare via un po’ di questa nebbia dorotea che avvolge la questione è giunta ora l’iniziativa di Margrethe Vestager, commissario europeo alla concorrenza. Esaminati gli accordi fiscali di Fiat Chrysler col Lussemburgo e di Starbucks con i Paesi Bassi, Vestager è giunta alla conclusione che queste intese configurano la fattispecie proibitissima degli aiuti di Stato imponendo alle due multinazionali di restituire fra i 20 e i 30 milioni di euro ciascuna all’erario dei due paesi. In un’ottica meramente bottegaia ci sarebbe poco da eccepire: qualcuno ha cercato di fare il furbo per avvantaggiarsi sulla concorrenza pagando meno tasse ed ecco che Bruxelles interviene per ristabilire le tanto celebrate parità di condizioni nella competizione mercantile.
L’esito paradossale dell’iniziativa è che questa finisce per regalare un rilevante premio in denaro alle casse degli Stati che, a loro volta, avevano fatto i furbissimi a danno degli erari altrui.
Cosicché la mossa di Vestager sottolinea la gravità dei problemi connessi ai “tax rulings” ma anche denuncia i pesanti limiti della volontà di intervento della Commissione Ue sulla questione. Va bene occuparsi della concorrenza sleale fra imprese, ma quella fra Stati allora?
In un’ottica non più soltanto bottegaia, ma di politica europea - cioè al livello di visione che si ha il diritto di pretendere dalla Commissione di Bruxelles - la pratica del ciascun per sé in materia di tassazione delle imprese è la più insidiosa forma di sabotaggio contro l’integrazione federale della Ue. Ma come: si è celebrato come uno storico passo avanti la nascita di una moneta comune che metteva fine alla disgregante pratica delle svalutazioni competitive e ora si vorrebbe chiudere entrambi gli occhi dinanzi ai guasti esiziali connaturati ai non meno distruttivi esercizi di sleale concorrenza fiscale fra Stati? Ha ragione il presidente del parlamento di Strasburgo quando dice che «l’Europa sta rischiando di frantumarsi». Solo che queste parole dell’ottimo Martin Schulz, anziché alla desolante gestione del nodo migranti, andrebbero riferite a ciò che si fa ovvero soprattutto non si fa a Bruxelles.