Opinioni
10 aprile, 2015

Quei morti africani che non vogliamo vedere

Le vittime della strage in Kenya sono 148. ?Il Papa denuncia. L’Onu chiama alla mobilitazione. ?Ma l’Occidente “bianco” rimane indifferente

La morte, vicina, vicinissima, raccontata quotidianamente come forse in nessun secolo è stato fatto, eppure al contempo mai nessuna generazione (occidentale) del passato ha avuto una così forte distanza dalla morte come dimensione reale. Non parlo ovviamente di morti private, ma di quelle che ci raggiungono attraverso notizie commentate, di quelle che ci fanno orrore a seconda di chi sia a morire, a seconda del luogo in cui quella morte o quelle morti avvengano e, soprattutto, a seconda del colore della pelle delle vittime, della loro etnia, della loro religione.

La retorica è un espediente narrativo che trovo molto efficace, ma non sempre, non quando si vuole affrontare un discorso che già per sua natura tocca ciascuno nel profondo. Quindi proverò a non usare retorica e se dico che un bianco che muore in Italia per l’opinione pubblica pesa più di un nero che muore in Italia, non sto provocando il lettore, ma sto dicendo esattamente quello che penso. E vado avanti: un bianco che muoia in Europa pesa più di un nero che muoia in Europa. Un bianco che muoia negli Stati Uniti pesa più di un nero che muoia negli Stati Uniti. Un solo bianco che muoia in Medioriente o in uno dei paesi che consideriamo a rischio, pesa più delle 148 vittime che Al-Shabaab ha fatto in Kenya, all’università di Garissa. Cosa accade alla nostra percezione della mancanza, dell’assenza, del vuoto? Perché in Italia il dibattito sul rapimento e sul pagamento del riscatto di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti in Siria, ha occupato più spazio - molto più spazio - dei commenti inorriditi alle foto diffuse dalle agenzie sulla strage di Garissa? Eppure sui morti in Kenya si è espresso il Papa, che al centro dei riti del Venerdì santo ha parlato delle persecuzioni religiose chiamando la strage di Garissa un «atto di brutalità senza senso». Si è espressa l’Onu che ha ribadito la sua «determinazione a combattere ogni forma di terrorismo». Agli occhi di chi vive da questa parte del mondo, quelle 148 morti tutto sommato sono il risultato di una instabilità politica, sociale e religiosa difficile da comprendere e da affrontare. Sono come le centinaia di morti in mare, che finiscono per essere percepite come inevitabili. Chiamando in causa l’Europa per gli sbarchi nel Mediterraneo è come se dicessimo continuamente: non è affar nostro, non possiamo farci nulla.

Indicare una strada non è semplice, ma se iniziassimo a pensare che un morto nero, che un morto musulmano, che un morto in Kenya pesa quanto un morto bianco e cristiano a Roma o a Parigi, avremmo sicuramente fatto un grande passo in avanti, perché avremmo compreso un concetto semplice, che ripeto spesso: non è la democrazia - come, sbagliando, insegnavano le politiche coloniali - a essere esportata ed esportabile, ma il suo opposto.

I terroristi somali, gli Shabaab, minacciano di far diventare le città keniote “rosse di sangue” per un motivo che non può lasciare indifferenti; perché, dicono ai kenioti, «non solo accettate le politiche oppressive del vostro governo ma neanche alzate la voce contro queste posizioni ed anzi rafforzate le scelte dei vostri governanti rieleggendoli. Pertanto sarete voi a pagare con il vostro sangue». E il sangue è rosso, sempre, e non conosce religione. Il sangue dei 148 studenti, tinge di rosso chiunque abbia coscienza.

E poi ci sono le storie individuali, quelle che permettono di mettere a fuoco un avvenimento. Guarda nell’obiettivo, è coperta da una sorta di mantello azzurro, ha l’aria distrutta. È la studentessa di 19 anni che per sfuggire ai jihadisti somali si è rinchiusa in un armadio dell’università. Chi sa cosa ha provato al buio, nelle undici ore in cui è rimasta immobile aspettando che l’inferno passasse. Chi sa cosa ha udito. Roberto Bolaño ha scritto un libro, “Amuleto” (Adelphi), in cui la protagonista Auxilio Lacouture si trovava nei bagni della facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Città del Messico il giorno in cui, nel 1968, i reparti militari antisommossa fecero irruzione e arrestarono tutti. Auxilio è un personaggio di invenzione, la studentessa keniota è una donna in carne e ossa. Per lei, per i sopravvissuti, per i ragazzi che sono caduti sotto i colpi di Al_Shabaab, le ultime righe di “Amuleto”: «E anche se il canto che ascoltavo parlava della guerra, delle imprese eroiche di un’intera generazione di giovani latinoamericani sacrificati, io capii che al di là di tutto parlava del coraggio [...]. E quel canto è il nostro amuleto».

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