Meno tasse, meno scioperi nei servizi pubblici, meno sprechi nella sanità. L’estate di Matteo Renzi punta a trasformare il segno meno in un formidabile più: più speranza nel futuro prossimo, più popolarità, più consenso. Il premier aggredisce temi su cui da decenni il Paese aspetta soluzioni. Lo fa con una ritrovata energia, smarrita nei quasi due mesi successivi al magro e deludente ?risultato elettorale nelle sette regioni in cui si è votato lo scorso 31 maggio.
Ha incominciato con le tasse, tema sensibile per ogni governo in calo di consensi. Al pacchetto triennale, la cui attuazione è condizionata alla sopravvivenza della legislatura fino alla scadenza naturale del 2018, ha aggiunto un’altra posta: l’abbattimento della tassazione sul profitto delle imprese. Un punto in meno della Spagna, ha annunciato il premier, ipotizzando una riduzione fino al 24 contro l’attuale aliquota del 31 per cento. Nel 2017. E sì, perché la campagna fiscale del premier è profilata sul domani. Per l’oggi c’è solo da dribblare sulla quotidiana mediocrità.
La grande tristezza di Roma, innanzitutto (ne scrive Marco Damilano). Dove la coppia dei due Matteo - Renzi il premier e Orfini il commissario dell’inquinato partito locale - ha messo sotto tutela un sindaco onesto quanto indebolito. Non c’è alternativa: o Ignazio Marino è capace di rivoltare il sistema di cattiva amministrazione e di collusione con il malaffare rosso-nero o si va al voto.
Ancor più complicato il caso Sicilia. Di Rosario Crocetta - di cui un bel po’ di italiani sono riusciti a farsi un’opinione più completa grazie a “l’Espresso” - Renzi si sarebbe liberato immediatamente. Ma la regione non è un comune; non si può commissariare. I 90 “deputati” dell’assemblea regionale hanno deciso di tirare avanti, tutti insieme, maggioranza e opposizione; eppure il sistema di potere costruito intorno alla figura di Crocetta scricchiola sotto il peso della sua inconsistenza. Ci sarà ancora molto da raccontare.
Ma a impensierire Palazzo Chigi è tutto il Sud, dove per la prima volta ogni regione ha un governatore di matrice Pd. Quasi una beffa, più amarezze che soddisfazioni finora provengono da quelle terre belle e disastrate. Il quotidiano cattolico “Avvenire”, mercoledì 29 luglio, ha documentato il “buco nero” rappresentato dal Mezzogiorno sotto il profilo economico e sociale e ha previsto almeno dieci anni di faticosa risalita per tornare ai livelli ante-crisi. Quale Paese può permettersi una generazione perduta in attesa del lontano 2025?
Se il mezzogiorno che ha votato Pd è in questa palude, ecco dunque che Renzi scarta e punta al Nord. Pigliando in contropiede Salvini. Tra gli ambienti produttivi che si erano appena avvicinati con il voto delle europee del 2014 per poi ritrarsi alle regionali, tra la classe operaia diffusa, tra il ceto medio sempre più impoverito, il tema della riduzione della pressione fiscale è di sicura presa. È lì che si gioca il consenso, sia che si voti tra tre anni, sia che - come è sempre possibile - un incidente di percorso interrompa la legislatura. Pragmatismo spinto che fa apparire surreale il dibattito se tagliare le tasse sia di destra o di sinistra.
Così come l’abbattimento degli sprechi nella sanità e l’ipotesi di regolamentare gli scioperi nei servizi pubblici sono - oltre che interventi necessari - messaggi rivolti al corpo profondo del Paese. Un’Italia stanca di inefficienze, di costi inutili alimentati per foraggiare consorterie e comitati d’affari, di conflitti sindacali alimentati da micro-sigle neocorporative.
Messo così sembra un programma riformista di lungo respiro. Baluardo, forse, ai populismi convergenti della Lega e dei 5 Stelle. È quel cambio di verso di cui si parla da troppo tempo. Con qualche azzardo di troppo. Sarà l’estate giusta?
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