I due hanno fatto l’accordo sulla Rai. Ma per la riforma del Senato il premier non può affidarsi al soccorso dell’ex Cav. Altrimenti perde il partito
COSA C’È IN COMUNE tra Forza Italia e il Pd? Nulla. E tra Renzi e Berlusconi? Beh, proprio nulla no. Però fino a che punto si può spingere una affinità elettiva?
Certamente i due leader si assomiglino per stile, capacità comunicativa ed egocentrismo. Poi c’è da aggiungere un approccio spesso superficiale e sbrigativo ai problemi, soprattutto quelli complessi, e un vitalismo proteico che viene proposto come modello di azione. Questi aspetti sono sufficienti a creare una “entente cordiale” tra i due leader, ma non si traducono automaticamente in consonanza politica.
Per compiere questo passaggio manca una visione comune. Di Berlusconi è già stato detto tutto e nulla è cambiato negli ultimi tempi. Il Cavaliere bada al sodo, ai suoi interessi privati, e piega la sua politica a tal fine. E quindi può vestire allo stesso tempo i panni del “presidente operaio” o del capo di tutti gli imprenditori, tanto, sotto il vestito non c’è nulla. Renzi, invece, ha delle coordinate ideali, magari un po’ confuse, che spaziano dal riferimento al cattolicesimo ispirato di Giorgio La Pira alla fascinazione per l’intrapresa in qualunque forma. Ma soprattutto si può definire un tardo-blairiano che recupera molti argomenti dalla terza via, quando oggi è contestata radicalmente all’interno dello stesso Labour, e per questo entra in rotta di collisione con la componente più tradizionale del Pd, quella di impostazione socialdemocratica. Purtroppo gli manca quella schiera di collaboratori di alto profilo che circondava Tony Blair (oltre ad un Cancelliere dello Scacchiere della caratura di Gordon Brown), ed è anche per questo che spesso il premier dà l’impressione di navigare a vista.
Ad ogni modo, se sorvoliamo su alcuni aspetti epidermici in sintonia con la destra berlusconiana, il rapporto non può che essere strumentale e di breve periodo. Al momento delle scelte decisive è inevitabile che l’intesa si rompa, pena l’implosione del Pd. Così è stato quando è stato scelto il candidato alla Presidenza della Repubblica. Se Renzi non avesse (magistralmente) agito per compattare il partito su un candidato condiviso, rompendo gli ormeggi con Berlusconi, la sua leadership, e forse la sua premiership, avrebbero subìto un colpo devastante.
A SETTEMBRE si riproporrà una situazione analoga, in occasione del voto sulla riforma del Senato. Anche in questo caso è probabile che, alla fine, Renzi, obtorto collo, debba acconciarsi a trovare un compromesso con la minoranza interna. Perché l’alternativa è quella di riportare il Pd alle condizioni di servaggio in cui si è trovato dopo le elezioni del 2013, e cioè ostaggio di Berlusconi. Difficile vedere Renzi che si mette nelle mani di un Cavaliere declinante o del suo scudiero Verdini. Sia per ragioni di autostima, sia , soprattutto, per calcolo politico. Il costo di un Nazareno al cubo – in sostanza di cambio di maggioranza cacciando fuori la minoranza dem e imbarcando i forzisti di complemento - supera di gran lunga i benefici della sopravvivenza del governo.
AL DI LÀ di una eventuale scissione formale, si aprirebbe una frattura profonda nel rapporto tra il leader e il suo partito in termini di militanti, iscritti ed elettori. Il Pd si percepisce tuttora come un partito di sinistra, non di centro. Un conto è una alleanza di necessità come nel 2013, un conto una scelta contro una parte del proprio partito. E Renzi guida una formazione politica che non vuole spartire nulla con chi rappresenta tutto il contrario dei suoi valori. Allora, perché l’accordo di basso profilo sulla Rai e la scomparsa dall’orizzonte della norma sul conflitto di interessi, annunciato a sorpresa dal ministro Elena Boschi qualche mese fa? E perché gli abboccamenti con Verdini? Tattica politica?
In effetti, Renzi non può – non vuole - essere il capo di un partito dimezzato o spaccato verticalmente. Il suo prestigio e la sua forza politica si ridimensionerebbero. Pensi al Labour e alla sua capacità di tenere sotto uno stesso tetto sindacalisti radicali alla Corbyn e frequentatori della City. La leadership non si esercita solo con la spada di Brenno.