Gli insegnanti non vogliono trasferirsi. Ma ora, come in passato, si deve andare dove il lavoro c’è. A patto di avere uno stipendio decente

Per i precari della scuola, la Notte prima degli esami è caduta il 2 settembre. Anche se nel loro caso l’esame è diventato un’ordalia, un giudizio di Dio. Trasmesso dallo schermo d’un computer, con la proposta di nomina (e di sede) da accettare, sempre per via informatica, entro la mezzanotte dell’11 settembre. Quel giorno, a New York, crollarono le Twin Towers; in Italia possono caderci addosso i nostri mille campanili. Almeno a giudicare dalle reazioni che hanno salutato il lieto evento: «esodo di massa», «lotteria delle assunzioni», «tragedia della deportazione». E intanto i precari s’indignano sui social network, protestano con lettere ai giornali, organizzano iniziative di contrasto, dallo sciopero al referendum. Hanno ragione?

Calma e gesso, per favore. Vero: c’è chi da Siracusa verrà sbalzato a Verona, o da Bari a Genova. C’è il caso della precaria di 54 anni cui tocca traslocare da Palermo a Bergamo. Insomma, si profila un’onda migratoria dal Mezzogiorno al Settentrione. Ma in primo luogo i «deportati» sono una minoranza: 7 mila su 38 mila assunti, dice la ministra Giannini (però i sindacati sparano numeri più alti). In secondo luogo, il trasferimento può essere rinviato all’anno prossimo, in modo da organizzarsi al meglio. E in terzo luogo, si tratta pur sempre di lavoro: lavoro volontario (e stabile), non la condanna ai lavori forzati.

Da qui una domanda che bisognerà pur farsi. Cosa ci sta accadendo, come siamo cambiati. Negli anni Dieci del secolo scorso fu la Grande Guerra a unire gli italiani, mescolando tra i fanti dell’Isonzo veneti e lucani, sardi e romagnoli.

Negli anni Cinquanta fu l’emigrazione interna a renderli coesi. Adesso, a quanto pare, i treni della speranza si sono trasformati negli aerei della disperazione. Sarà che abbiamo perso la speranza, la fiducia nel futuro; e allora ci acquattiamo dentro casa, come un animale nella tana. O forse sarà che non riusciamo a sintonizzarci sul presente. Perché il mondo è cambiato: non è più il lavoro che viene da te, sei tu che devi andare a cercarlo, lì dove si trova. Non a caso ogni americano cambia Stato, in media, quattro volte nella vita.

Però in questa vicenda non gioca solamente un ritardo culturale. C’è un profumo d’ingiustizia, che fa arricciare il naso dei precari. È stato ingiusto, per esempio, escludere i docenti dell’infanzia dal Piano straordinario di assunzioni. È ingiusto il castigo che colpisce i renitenti: chi non accetta la destinazione viene definitivamente espulso da tutte le graduatorie in cui sia iscritto. Ora, l’universo della scuola è complicato, nemmeno un astronomo ci capirebbe un accidenti. S’incontrano graduatorie ad esaurimento, d’istituto, di merito. Vi trovano spazio i vincitori di concorso, gli idonei, gli abilitati, i non abilitati. Ma allora perché estendere la cancellazione a tutte le graduatorie, anziché soltanto a quella oggetto di rinuncia?

E a proposito di complicazioni. Il Piano ministeriale è stato congegnato come un missile a quattro stadi. Nella fase B – quella appena conclusa – ha deciso tutto un cervellone elettronico, che però non funziona esattamente come i computer della Nasa. Funziona in base a un algoritmo, che incrocia punteggi e province fino a individuare un posto libero. Il cervellone del Miur ci ha messo 60 ore, passando in rassegna i 72 mila docenti che avevano presentato domanda per 16.210 posti. E alla fine della giostra ne ha selezionati soltanto 9 mila, perché non ha trovato i profili adatti.

Morale della favola: nonostante la Buona scuola, il supplente è vivo, e lotta insieme a noi. Ne avremo bisogno anche quest’anno. Mentre non avremmo avuto bisogno di fronteggiare l’esodo se il punteggio fosse stato diviso per gli anni di precariato.

Piccole ingiustizie, che però s’incidono come grandi ferite sulla pelle di chi le subisce. Ma l’ingiustizia più ingiusta sta nello stipendio medio dei docenti: 29 mila euro l’anno, nessuna categoria di dipendenti pubblici guadagna di meno. Magari è per questo che ti passa la voglia di fare le valigie.

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