Nel dedalo di Cnosso, ?una volta eliminato il pericolo, si trovava facilmente l’uscita. Non così in quelli contemporanei. Complessi come le nostre angosce
Vorrei riprendere il tema dell’ultimo “Vetro soffiato” di Scalfari. Il labirinto nasce con la vicenda di Teseo e Arianna, ma poi continua a ossessionare se non il mondo dei filosofi quello delle arti, appare sui pavimenti delle cattedrali medievali, tra manierismo e barocco ispira la struttura dei giardini, sino ad arrivare agli angosciosi percorsi di Kubrick in “Shining”, a Escher, o alle immaginazioni sempre labirintiche di Borges.
Ma nel labirinto di Cnosso, quello di Teseo, non ci si poteva perdere. Prendete su Internet un modellino del labirinto di Cnosso e seguite il percorso con una matita. Vi accorgerete che non potete che arrivare al centro e dal centro non potete che trovare l’uscita. Il labirinto di Cnosso è “unicursale” e se lo srotolate vi trovate tra le mani un filo, il filo di Arianna. Quello che rende il labirinto di Cnosso pericoloso è che al centro vi sta il Minotauro. Eliminato il Minotauro, se ne esce benissimo.
Salvo che i guai per Teseo, ci ricorda Scalfari, incominciano dopo, quando è obbligato a fare altre scelte, diciamo “esistenziali” (per esempio deve decidere tra Fedra e Arianna). L’immaginazione classica non era riuscita a dare forma a questo intrico che ci attende fuori del labirinto perché, almeno sino all’epoca moderna, il modello del mondo era rigidamente geometrico, fatto di forme “chiuse”: sfere concentriche, gerarchie triangolari, e da Vitruvio a Leonardo figure umane racchiuse in un quadrato, in un cerchio, in un pentagono.
Con l’era moderna si inizia a sospettare non solo che la terra non sia al centro del mondo, ma che il mondo sia infinito, o che esistano infiniti mondi, e l’universo non è più rappresentabile con metodi euclidei. Così il labirinto da unicursale diventa multicursale. Ad ogni passo si presenta una disgiunzione tra due percorsi e uno solo è quello buono. Nel labirinto multicursale ci si perde e, fosse srotolato, non ne risulterebbe un filo, bensì un albero, potenzialmente infinito. Ogni volta un percorso può portare a un culo di sacco, o ad altri percorsi che non conducono all’uscita. E non si può avere una immagine globale del labirinto, ma soltanto fare ipotesi a ogni scelta, così che un matematico come Rosenstiehl ha parlato di “algoritmo miope”.
Ma la situazione si complica con una terza forma del labirinto, la rete o ragnatela, dove ogni punto può essere connesso a qualsiasi altro punto, ispirando percorsi multipli. Come in una rete ferroviaria, per andare da Milano a Torino certamente il percorso più breve passa per Novara, ma nulla vieta di affrontare l’avventura del viaggio Milano-Bologna-Roma-Grosseto-La Spezia-Genova-Torino. Oppure pensate al Web.
Una rete non può essere srotolata. Anche perché, mentre i labirinti dei primi due tipi hanno un interno (il loro proprio intrico) e un esterno, da cui si entra e verso cui si esce, il labirinto di terzo tipo, estensibile all’infinito, non ha né esterno né interno. Deleuze e Guattari avevano proposto la metafora (o il modello) del rizoma.
Ora il mondo contemporaneo si è reso conto che la struttura dell’universo è a rete. La scienza non ha paura della rete perché dopo ogni scelta può falsificare le sue ipotesi e tentare un’altra via (come dicevano quelli del Cimento, provando e riprovando). Ma nella nostra vita non è facile rinunciare alle nostre convinzioni e, anche a volerlo, non si può tornare indietro. La rete è insensibile al trascorrere del tempo, ma noi no.
Ed ecco che il labirinto a rete spiega le nostre angosce e la nostra condanna all’errore e alla contraddizione. Il Minotauro di noi stessi siamo noi.