Ricerca e sviluppo sono due parole che trovano senso solo quando le si pronuncia insieme. E sono esattamente ciò di cui avrebbe bisogno l’Italia per poter avviare davvero quella ripresa economica che sembra essere dietro l’angolo, ma che non si riesce a raggiungere.
La strada è lunga e le cose da fare sono tante, questa è una giustificazione che non regge quando facciamo i conti in tasca al settore che davvero farebbe la differenza, ovvero quello della ricerca e della necessaria attuazione dei risultati degli studi effettuati.
A quanto pare, invece, i dati sugli investimenti in start up del 2015 sono assimilabili a quelli dell’anno precedente: 40 milioni circa nel 2014 e 20 milioni nel primo semestre del 2015, mentre aspettiamo i dati definitivi relativi alla seconda metà dell’anno. Si tratta di cifre assolutamente irrisorie e prive di costanza, se paragonate a quelle di altri Paesi europei come la Germania o la Francia. Il risultato è che l’Italia può vantare studi eccellenti, ricerche importanti e pubblicazioni divulgate e consultate dalla comunità scientifica internazionale, ma scarsi investimenti per perfezionare la ricerca e renderla innovazione. Per diventare, in una parola, leader e non sempre e solo utenti, fruitori. Eppure in tempi di crisi economica e di disoccupazione al 12 per cento (quella femminile al Sud è in crescita e non in diminuzione) investire in sviluppo sarebbe forse l’unico modo per dare una significativa scossa a un sistema sostanzialmente in stallo. E gli investimenti dovrebbero smettere di avere il sapore dell’elemosina, dovrebbero essere investimenti diretti e non solo sotto forma di incentivi fiscali.
Quello che accade, invece, nonostante la riforma dell’Università, è che ad anni di studi e di ricerca non segue alcuna possibilità di costruzione di un percorso, nemmeno nelle realtà in cui il tessuto economico aveva per vocazione la nascita di piccole e medie imprese, che hanno costituito per decenni la struttura economica portante del nostro Paese. Quello che accade è che dopo anni di studi in Italia, chi ha le possibilità per poter cercare un percorso fuori, si affretta a lasciare il Paese che ha fornito il know how, per diventare altrove una risorsa preziosa.
Sono lontani gli anni in cui a studiosi italiani che andavano a farsi le ossa all’estero corrispondeva un numero assimilabile di studiosi stranieri che veniva in Italia a completare il proprio percorso. La nostra emigrazione scientifica è a senso unico, ed è in uscita e difficilmente si torna indietro perché mancano completamente prospettive, perché manca una visione. È evidente che continuare ad agire come se questo fosse un problema tutto sommato secondario, non farà che votarci a diventare negli anni, non ne passeranno molti, un Paese sempre più marginale (essere posizionati, per crescita, tra Portogallo e Grecia dovrebbe farci comprendere che è tempo di cambiare rotta) e a nulla servirà fare appello a un passato glorioso che rispolveriamo in maniera utilitaristica, senza davvero riuscire a sopportarne il peso. Un Paese in cui alla mancanza di diritti civili basilari si affianca anche la mancanza di prospettive reali di realizzazione e l’impossibilità di poter contribuire con il proprio lavoro e i propri talenti al miglioramento delle condizioni di vita di tutti, è un Paese nel quale si resta quasi esclusivamente per mancanza di alternative.
E tutto è immobile mentre assistiamo al Nord alla fine della tradizione imprenditoriale e mentre al Sud vantiamo bellezze naturali rese irraggiungibili da vie di comunicazione impraticabili.
Mi è capitato spesso di lanciare provocazioni, di invitare a individuare quelle aree, tra le più disagiate al Sud, e trasferirvi le sedi (non redazioni secondarie, ma sedi centrali) dei maggiori quotidiani nazionali per vedere come il racconto dell’Italia cambia se cambiano le prospettive. E poi in quelle stesse aree favorire la nascita di poli di innovazione, delle piccole Silicon Valley che possano rappresentare il futuro e la speranza del nostro Paese. Ma le provocazioni hanno un senso se c’è qualcuno che abbia voglia di coglierle e di ragionare. Hanno un senso se nel Paese c’è ancora qualcuno che crede che nonostante lo sfascio, nonostante i proclami, nonostante le menzogne, ci siano ancora possibilità reali di ripartire davvero, mettendo i capitali dove vanno messi, investendo dove ha senso investire.
Camorra10.11.2011
Quel processo, la mia speranza