Ciao Marco, a subito!

L’ultima battaglia di Pannella è stata per il “diritto alla conoscenza”. Un modo per controllare i governi. E ricostruire la fiducia nelle democrazie

di Roberto Saviano   27 maggio 2016

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Ho deciso di salutare Marco Pannella a modo mio. Ho deciso di dirgli come faceva lui sempre, come ha fatto anche con me, «a subito» perché non c’è tempo per ripercorrere le sue vittorie, ma il tempo che abbiamo, dobbiamo utilizzarlo per impegnarci perché le sue idee, quelle che ci sono affini (non è detto lo siano tutte), continuino a camminare e a conquistare spazi.

Ciò che Pannella ha iniziato e che ancora non ha avuto la luce necessaria è tanto, troppo. Tanti e troppi i fronti perché io riesca a elencarli tutti, senza far torto a chi da sempre, come Emma Bonino, è attiva entro i confini di un movimento smisurato. Dal segretario di Radicali italiani Riccardo Magi, a chi, da anni, lavora con ostinazione sulle droghe (Roberto Spagnoli, Marco Perduca), le carceri (Rita Bernardini, Luigi Manconi), la giustizia (Maurizio Turco), la pena di morte (Sergio D’Elia), sull’informazione (Massimo Bordin, Alessio Falconio), allo smantellamento della iniqua, tremenda, legge 40 che dobbiamo al lavoro certosino di Filomena Gallo e dell’Associazione Luca Coscioni, alla fondamentale campagna di informazione sul fine vita e sul testamento biologico (Marco Cappato).

Ecco perché ho scelto di dedicare queste righe all’ultimo diritto negato su cui Marco Pannella si è concentrato e sul quale stava provando ad attirare attenzione insieme a Matteo Angioli e Laura Hart. Un diritto semplice, il diritto umano universale alla conoscenza. Cosa ha inteso dire Pannella con diritto umano universale alla conoscenza? E come mai ha utilizzato i suoi ultimi giorni e le sue ultime parole per questo diritto che infondo sembra tanto scontato, persino banale? Me lo sono chiesto e mi sono dato una risposta che forse banale non è. Il diritto umano alla conoscenza è il diritto dei diritti. È il diritto fondamentale, quello che viene prima di tutti gli altri, persino prima del diritto alla felicità, perché è quel diritto che sancisce la necessità di conoscere in che modo e perché i governi a vari livelli prendono decisioni che influiscono sulle vite dei cittadini, sui loro diritti umani e sulle loro libertà civili. Perché è un diritto che pone attenzione a un patto fondamentale, quello tra i cittadini e chi li governa. Perché è un diritto che, indagando il processo di delega insito nel patto politico tra cittadini e governanti, riporta attenzione sull’obbligo per un soggetto investito di una carica pubblica, di rendere conto della proprie azioni e di essere pienamente responsabile dei risultati ottenuti o non ottenuti. La parola è accountability, ma la sostanza è ridare fiducia a un patto, quello tra cittadini e politica, che oggi è ai suoi minimi storici.

Senza fiducia non può esserci battaglia per i diritti civili che non sembri una marcia di folli verso un palazzo che si allontana al loro incedere. Senza fiducia non può esserci investimento reale ed emotivo sul futuro. Senza fiducia non c’è comunità, né felicità, né giustizia.

Sul sito www.radicalparty.org c’è un testo interessante da poter leggere; spiega come il buon funzionamento dei meccanismi di controllo democratico non solo contribuisce al progresso della democrazia, ma restituisce senso alle istituzioni e fiducia a chi le istituzioni smette di subirle, ma inizia a viverle con partecipazione.

Il Senato americano che pubblica il rapporto sul programma di tortura della Cia dopo l’11 settembre non allontana gli americani dalle istituzioni, ma li avvicina, non li rende complici ignari e dà loro la possibilità di prendere le distanze, di capire. Non li fa sentire cittadini traditi. Tra i prigionieri torturati uno su cinque era tenuto in stato di detenzione per sbaglio e quei metodi non hanno, come è evidente, portato a nulla, questo chi paga le tasse, chi vota, deve saperlo per capire fino a che punto può delegare e fidarsi.

Ed ecco che tutto è più chiaro, quell’uomo che ha sempre visto oltre, ha capito che il diritto che manca è l’unico diritto che potrà dare di nuovo senso alla nostra vita sociale. L’onestà della politica e dei politici non valutiamola dalla fedina penale, ma da quanto sarà disposto chi ci governa a condividere con noi, e da quanto saremo disposti noi a chiedere conto su azioni e decisioni, attraverso una delega vigile. E se questo non accade ora, è tempo di lavorare perché il diritto umano universale alla conoscenza venga codificato e non resti solo una possibilità.
E quindi: a subito!
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