Ora ci si chiede: prevarrà l’Italia positiva di Titti Postiglione, tenace signora della Protezione civile, o l’Italiaccia dell’incuria e del malaffare che ha ignorato le crepe dell’ospedale di Amatrice? Ancora: sarà la volta buona per immaginare una sorta di Piano Marshall utile a ricostruire un Paese ballerino, come Antonio Cederna auspicava da queste pagine già cinquant’anni fa? E magari diventerà questa tragedia l’occasione della svolta, oltre che di trattativa con l’Europa su flessibilità e crescita, e perfino la nuova cornice della campagna referendaria? Presto per dirlo, e però stavolta s’è visto almeno lo sforzo, non sempre riuscito, di far andare le cose in modo diverso. In effetti, ad Amatrice si scavava tra le macerie già un’ora dopo il terremoto mentre i medici scendevano dagli elicotteri; le tendopoli sono state rapidamente allestite; i primi stanziamenti sono partiti subito; la raccolta di denaro, cibo, flaconi di sangue è andata oltre ogni aspettativa; vigili del fuoco e volontari hanno lavorato egregiamente; la compostezza delle popolazioni colpite ha offerto una lezione di civiltà che ora è doveroso restituire.
Non andò così in Belice, cinquant’anni fa: lentezze, ricostruzione caotica, un fiume di denaro che arricchì i soliti noti e sollevò un’indignazione generale che sarebbe confluita nella rabbia del Sessantotto. Non andò così nemmeno in Irpinia, dove i soccorsi cominciarono ad arrivare addirittura due giorni dopo i cronisti; “Il Mattino” titolò “Fate presto”; Sandro Pertini corse giù, vide lo sfacelo e indignato lo raccontò agli italiani dalla tv menando fendenti contro governo e partiti. Le sue parole, azzardano gli storici, contribuirono ad archiviare la stagione della solidarietà nazionale. Era il novembre 1980. Oggi Sergio Mattarella ha potuto vestire i panni del buon padre di famiglia che consola e rassicura.
Certo, non è mancata la consueta litanìa degli abusi e del malaffare e certo altre magagne scopriremo: l’appalto a un’impresa sotto inchiesta; il vicesindaco geometra che ha tirato su, male, mezza Amatrice; i lavori continuamente rinviati mentre si accavallavano gli allarmi; i palazzi caduti che svelano più sabbia che cemento, così come il cemento armato dell’Aquila non era armato per niente. Ma stavolta la macchina è partita un po’ meglio e il governo, affidandosi alla competenza di Renzo Piano, scommette su un progetto di lunga durata, “Casa Italia”, tre miliardi l’anno per rimettere in piedi o in sicurezza 120 milioni di vani privati e 26mila edifici pubblici costruiti come se non fossero in zona sismica.
Vedremo. Lo slogan è ben trovato, l’idea è giusta, e sarebbe bello che, dopo tanti morti, macerie fumanti e parole al vento, il piano di risanamento si concretizzasse. Per molte ragioni. Una di queste è che costituirebbe anche un aiuto formidabile per tirar fuori il Paese dalla stagnazione, investimento più efficace di qualunque altra infrastruttura perché meno invasivo e destinato a incidere nel profondo del tessuto urbano, sociale, economico: lavoro, occupazione, risparmio energetico grazie a nuove tecniche di costruzione, rivalutazione dei beni culturali, occasione per cancellare leggi inutili, stabilire una più efficace catena di controlli, fissare precise responsabilità.
Difficile dire se tre miliardi l’anno (per quanti anni?) sarebbero sufficienti o no, ne sono stati bruciati 121 tra il 1968 e il 2012 solo per rimettere a posto quello che era stato distrutto qua e là con la media di un sisma ogni cinque anni. Soldi a volte spesi bene, come in Friuli o a Norcia o in Lunigiana o in Emilia, a volte malissimo come ad Avellino o a San Giuliano o nella povera Amatrice dove per freni burocratici si è riusciti a impegnare poco o niente di quanto stanziato dopo l’Aquila: «La burocrazia uccide più del terremoto», lamentava Danilo Dolci dalla sua Sicilia. Ma nessuno pensi che un progetto di questa portata si possa realizzare dall’oggi al domani e piuttosto speriamo che, passata la sfuriata del referendum e il sogno di cambiare verso, non finisca tutto nel cimitero delle buone intenzioni. Sono sfide lunghe venti-trent’anni, e forse l’Europa capirebbe il senso di una flessibilità utile non per l’ordinaria amministrazione, ma per sanare ferite antiche. La ricostruzione postbellica, favorita dal Piano Marshall, non è durata un anno. E a differenza del terremoto, di guerra non ce n’è stata una ogni cinque anni.
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