A Torino in redazione c’era un monarca

Giulio De Benedetti guidò la Stampa per  un ventennio. La governava con pugno di ferro  ma sapeva resistere alle pressioni dall’alto

La Stampa ha celebrato nelle sue pagine di qualche giorno fa i 150 anni dalla sua fondazione. È il più vecchio tra i giornali importanti del nostro Paese, ma ha sempre riferito, rispettato e contemporaneamente anche influenzato l’anima della città che per lunghi secoli è stata sede di un principato e poi di un regno, ha gestito il Risorgimento, la famiglia regale si è imparentata con quasi tutte le altre famiglie dello stesso rango, ha avuto tra i più celebri condottieri militari ed ha infine guidato i periodi di sviluppo economico e industriale italiano insieme a Milano e forse anche di più.

Oltre alla Stampa anche altri giornali hanno dato notizia dell’anniversario e tra questi particolarmente Repubblica con un ampio articolo di Ezio Mauro che ha diretto quel giornale per alcuni anni e poi è tornato a Repubblica dove era stato corrispondente da Mosca. Ezio è piemontese, aveva esordito nella Gazzetta del popolo e poi alla Stampa infine, come ho già ricordato, a Repubblica, poi di nuovo alla Stampa come direttore e infine a Repubblica che ha diretto per vent’anni.

A me queste collaborazioni multiple sono mancate, debbo dire per una scelta. Ho diretto soltanto due giornali che avevo contribuito a fondare e che ben conoscete: il settimanale l’Espresso e il quotidiano la Repubblica, ma conosco Torino molto bene: politicamente perché fui eletto deputato nelle elezioni del 1968 con il Partito socialista e per ragioni familiari perché sposai Simonetta De Benedetti figlia di Giulio, uno dei maggiori giornalisti italiani che diresse la Gazzetta del popolo che con lui arrivò a superare la Stampa e poi, con molti anni di interruzione perché era antifascista ed ebreo, diresse la Stampa dal 1948 per oltre vent’anni facendola la sola alternativa al Corriere della sera e accogliendo nelle sue pagine i collaboratori più prestigiosi. Ezio li ha nominati tutti e non sto a ripeterli. Mi limito a ricordarne alcuni dei quali sono stato intimo amico: Norberto Bobbio, Arturo Carlo Jemolo, Vittorio Gorresio, Alberto Ronchey.

Ezio Mauro nel suo articolo che ho citato, quando fa il nome di De Benedetti definisce la sua direzione come «vent’anni di monarchia». È esatto. Giulio viveva per il giornale e lo guidava come un monarca assoluto. Ricordo ancora quando arrivavano il caporedattore e il suo vice con la bozza della prima edizione verso le nove della sera, entravano, mostravano la bozza, il direttore la esaminava, spesso diceva va bene così, altre volte diceva no, così non va. Quelli gli domandavano dov’era il difetto e lui rispondeva: io so che non va, il difetto trovatelo voi e correggetelo. Loro si ritiravano camminando all’indietro perché davanti al direttore non gli voltavano la schiena. Questo episodio a cui ho assistito un paio di volte dice già tutto sul tipo di carattere e di direzione del giornale. La sua giornata cominciava alle dieci del mattino. Leggeva i giornali e a mezzogiorno arrivava in ufficio per la riunione del mattino. Durava non più di un quarto d’ora. Lui stava in piedi appoggiato di schiena alla sua scrivania e i capiservizio facevano circolo intorno a lui, naturalmente tutti in piedi. Si esaminava il giornale settore per settore con estrema rapidità. Dopodiché tutti uscivano salvo il cronista che restava con lui.

A quel punto lui si sedeva ed esaminava i fatti della città e il modo di riferirli. Dopodiché arrivava a casa verso l’una dopo mezzogiorno; mangiava rapidamente con la famiglia (moglie e figlia) poi partiva guidando la macchina senza autista e andava nella sua casa di campagna a Rivoli, quindici chilometri da Torino. Usciva subito perché la casa era in mezzo ad un bosco e lui camminava almeno un’ora. Poi tornava accanto alla stufa accesa e dormiva una mezz’ora dopodiché titolava una per una le lettere dei lettori che erano collocate in seconda pagina e si chiamavano “Lo specchio dei tempi”. Lui rispondeva alle lettere con quattro o cinque parole di titolo, quasi sempre un titolo polemico rispetto al testo che doveva pubblicare. Dopodiché tornava a Torino e andava direttamente al giornale verso le sette di sera e ci rimaneva fino all’una dopo mezzanotte perché doveva vedere l’ultima ribattuta che era quella appunto diffusa nella città. A quel punto tornava a casa cenava e andava a dormire. A teatro avrà messo piede non più di tre quattro volte e la sua giornata era quella che ho qui descritto e alla quale ho partecipato tutte le volte che ero a Torino e alloggiavo ovviamente nella sua casa. Nel bosco parlavamo cioè parlava lui, io gli facevo qualche domanda e lui rispondeva raccontando, analizzando, giudicando. Direi che era un racconto quasi romanzato, non perché inventasse personaggi o atteggiamenti inesistenti, ma perché l’efficacia del racconto e la conoscenza profonda che aveva della città, dei personaggi che venivano citati e insomma del suo lavoro era tale che sembrava di leggere un romanzo, invece corrispondeva parola per parola alla realtà. A parte la titolazione delle lettere e la guida del giornale che scendeva addirittura fino alle virgole, lui scriveva un breve corsivo di spalla in prima pagina ogni domenica ma non più di questo. Non ha mai scritto un articolo di fondo.

La Stampa era di proprietà della Fiat che in quel periodo era diretta da Vittorio Valletta con un Gianni Agnelli ancora giovanissimo.

Riferisco questi particolari della sua vita lavorativa, non soltanto poiché passavamo insieme naturalmente le giornate del Natale ed anche in quell’occasione partivamo lui ed io per Rivoli e passeggiavamo nel bosco. La stessa cosa avveniva in piena estate per una quindicina di giorni e poi tutte le volte che io capitavo a Torino per molte ragioni. Accadeva qualche volta che lui avesse delle discordanze di opinione con Valletta, ma passavano rapidamente salvo una volta in cui viceversa furono molto serie. Lui dimostrava molta simpatia per i giovani immigrati dal Sud e dal Veneto verso Torino dove cercavano lavoro. Potevano essere i lavori più vari ma quelli più fortunati puntavano ad entrare in Fiat dove naturalmente gli venivano assegnati i lavori più elementari ma più faticosi: la catena di montaggio e la fusione metallurgica nelle apposite officine. Questo lavoro ovviamente non lo riguardava, ma la formazione della pubblica opinione a Torino e in Piemonte la considerava di sua esclusiva pertinenza. Naturalmente questo lo metteva in contatto con una serie di personalità politiche e culturali: Saragat, Nenni, Terracini, il comunista che aveva firmato la Costituzione italiana nel 1947, i presidenti della Confindustria e i capi dei sindacati, quelli metallurgici in particolare, alcune grandi famiglie industriali come i Pirelli e poi Di Vittorio il sindacalista pugliese e nazionale, i direttori del Corriere della Sera come Missiroli, scrittori come Cesare Pavese, Guido Piovene e Paolo Serini.

La lite con Valletta avvenne proprio sulla questione degli immigrati che secondo l’amministratore delegato della Fiat erano trattati con eccessiva indulgenza dalla Stampa. Era ora di finirla, gli disse in un incontro appositamente convocato negli uffici di direzione della Fiat. «Gli immigrati hanno invaso la città e i cittadini torinesi si trovano a mal partito specie in alcuni rioni dove finora svolgevano le loro attività di vendita e di acquisto delle merci più importanti della giornata. La Stampa sembra un giornale schierato con gli immigrati e questa è una cosa che deve cessare».

Giulio lo lasciò parlare fino in fondo e poi molto freddamente gli disse: «Dopo questa lavata di capo è evidente che io manderò domani, non a lei ma al dottor Agnelli, le mie dimissioni dal giornale. Ricordo però che a lei è affidata la costruzione di nuovi modelli per le automobili e a me la gestione della pubblica opinione. Se lei interviene anche su questo punto è evidente che io me ne vado quindi credo che non ci vedremo mai più». Dopodiché le dimissioni furono date a Gianni Agnelli ma non ebbero da lui alcuna risposta diretta, bensì la ebbero il giorno dopo dal medesimo Valletta il quale si recò lui all’ufficio di De Benedetti al giornale. Gli disse che aveva a lungo riflettuto su quanto si erano detti il giorno prima ed era arrivato alla conclusione che la linea da lui seguita al giornale era quella esatta. Aveva anche ragione nel dire che la gestione della pubblica opinione spettava al direttore della Stampa. Lui era d’accordo, ammise l’errore fatto e ne chiese scusa e ripresero il lavoro per altri numerosi anni in perfetta amicizia.

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