L’«eterna quistione», come la chiamava Antonio Gramsci, non interessa più a nessuno. Cent’anni fa ne scrivevano Salvemini e Gobetti, Dorso, Sturzo e Giustino Fortunato pensando al Mezzogiorno come a un’architrave del giovane edificio nazionale: non si capisce l’Italia se non si capisce il Sud, dicevano; oggi il tema torna utile giusto per campagne elettorali, congressi e primarie: non scalda gli animi, e nemmeno un’ora ?di talk-show. Sempre che non se ne parli per altri primati: corruzione, inquinamenti, invasività delle mafie, come s’è visto dopo la visita di Sergio Mattarella a Locri. Insomma, di quell’attenzione viva e della lunga stagione di intervento pubblico, è rimasto poco o niente. Manco un capoverso in un programma di governo. Ieri si rischiava la litania, oggi si celebra la rimozione.
In compenso, una valanga di numeri ?e statistiche ci travolge ogni anno per opera di benemeriti centri di ricerca (Svimez, Fondazione Ugo La Malfa) ?e ci restituisce l’immagine di un meridione che si svuota, si impoverisce, si allontana dal resto del Paese, e tuttavia mostra una vitalità tenace. Cominciamo dai record negativi: dall’inizio della Grande Crisi, le famiglie che la statistica definisce «povere» sono aumentate del 40 per cento; una su cinque vive senza acqua corrente. La popolazione invecchia, la natalità è in calo, il tasso di disoccupazione è doppio che nel Nord, chi può scappa. Quattro ragazzi su dieci non arrivano al diploma, ma più della metà di quelli che ce la fanno vanno a studiare altrove o all’estero. In quanto a ricchezza prodotta, il divario nord-sud cresce: il gap economico tra Lombardia ?e Calabria è più ampio che tra Germania e Grecia. Intere città se ?non regioni sono totalmente fuori ?dal controllo dello Stato, ostaggio ?di cricche locali. È come se questi italiani vivessero in un altro Paese.
E però, bene e male, fino a tutti gli anni Ottanta l’aiuto dello Stato non ?è stato in discussione e un’ingente massa di denaro è piovuta sulle imprese del Sud, anche se troppo spesso per ragioni di clientela ?e non di merito. Poi quell’equilibrio ?si è spezzato, forse per il maturare contemporaneo di tre fenomeni: il vento liberista, ideologico o finanziario che fosse, ha cominciato a soffiare contro ogni forma di sostegno pubblico all’economia; le grandi organizzazioni politiche, che comunque facevano della battaglia meridionalista un pilastro della loro azione, si sono sgonfiate; mafie ?e criminalità hanno preso quasi ovunque il sopravvento. Ai partiti sono subentrate le Procure, e la Cassa per il Mezzogiorno è diventata sinonimo ?di sprechi, ruberie, Casta.
Un deserto. Nel quale però studiosi come Giorgio La Malfa e Paolo Savona vedono spuntare qualche cespuglio verde, e questo fa loro sperare ?in un ripensamento sull’intervento pubblico. Presentando il sesto rapporto della Fondazione Ugo ?La Malfa sulle 140 mila imprese industriali nel Mezzogiorno, elaborato su dati Mediobanca, essi si soffermano in particolare sulle imprese medie (meno di 250 addetti): sono appena 263 su un totale nazionale di 3.334, assai meno del dieci per cento per una popolazione che è quasi un terzo di quella italiana. Nel 2008, però, erano 360 su 4.102 e dunque sono diminuite più sensibilmente (26,9 per cento) ?che al nord (18,7).
Insomma, venute meno le «cattedrali nel deserto» (per la fine della Cassa ?e delle partecipazioni statali e la riduzione dell’intervento statale), ?le medie imprese non sono riuscite ?a prendere il loro posto creando un nuovo e robusto tessuto industriale, ma resistono grazie ?alle dimensioni e all’internazionalizzazione. Debole e in calo anche l’occupazione: le “medie” danno lavoro a 31 mila persone, erano 44 mila nel 2008; anche contando gli 80 mila delle “grandi” (con più di 500 addetti), le non italiane ?e l’esercito degli irregolari, non si arriva a 150 mila unità. La metà ?degli occupati nell’industria nella ?sola provincia di Treviso.
E i dati positivi? Ci sono, sorprendenti. Spulciando i bilanci ?si scopre che per incremento del fatturato, capacità di esportazione, produttività e incidenza del costo ?del lavoro sul valore aggiunto, queste imprese non hanno niente da invidiare alle sorelle del nord, anzi. Dunque, conclude il rapporto, non è vero che nel Mezzogiorno non si possa fare sana imprenditoria, e i limiti non vengono dal capitale umano, piuttosto da quello finanziario e tecnologico che segnano il passo. Tocca quindi alla politica individuare specifiche aree industriali e farle sviluppare facendo confluire risorse pubbliche, adeguando le infrastrutture, arginando le commistioni politica-malavita. ?Ci vorrebbe più Stato, appunto. E più Europa: ?se non fa questo, che fa? Celebrando i sessant’anni del Trattato di Roma, la domanda non è peregrina.
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