L’antitaliano

Elogio del fallimento

di Roberto Saviano   7 gennaio 2018

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Nell’ultimo Star Wars il maestro Yoda dà fuoco a libri sacri. Un potente invito a riflettere sul senso vero della conoscenza

«Di’ la verità, avevi letto la sceneggiatura di Star Wars episodio VIII prima che il film uscisse?». Così esordisce un amico dopo essere stato al cinema qualche giorno fa. «Perché avrei dovuto?». domando. «Perché ho sentito fare a Yoda un ragionamento sul fallimento, una ragionamento molto simile alla tua esortazione alle madri durante le presentazioni di Bacio feroce. Avevi detto che bisognava insegnare ai ragazzi a fallire più che a vincere, e questa cosa mi aveva molto colpito perché è un insegnamento controintuitivo. In genere si insegna a inanellare successi, che vincere non è tutto ma se poi non vinci sei uno sfigato, ecco perché la tua esortazione mi aveva fatto riflettere».

Felice del paragone con il vecchio Yoda resto incuriosito e vado a vedere il film. In ogni episodio della saga c’è, oltre ad azione e sentimento, anche una parte importante che in genere è affidata ai saggi (a Yoda o a Obi-One) in cui, attraverso poche battute, il ragionamento si fa filosofico, lo spirito del tempo viene teorizzato e diventa quasi regola. Regola per tutti, anche e soprattutto per noi. Niente di banale, ma pillole di buon senso che puntellano il film e stimolano la riflessione. Senza fare spoiler, mi concentro su uno scambio tra Luke Skywalker e Yoda, il quasi millenario maestro jedi. Luke non è più il giovane Skywalker, è ormai un vecchio jedi piegato più che dagli anni, dall’incapacità di comprendere il senso profondo dei suoi fallimenti. Il lato oscuro non è mai battuto nonostante sforzi disumani, il suo ultimo apprendista gli viene sottratto dal nuovo signore dei sith (i sith sono i “cattivi”, un dettaglio per i neofiti) e Luke non riesce a trovare un senso a ciò che accade. Si sente sopraffatto e le esperienze negative non ritiene di doverle trasmettere, ma dimenticare insieme a ciò che ha significato la saggezza jedi.

È nel momento di massima disperazione che interviene Yoda - non in carne e ossa ma la sua ombra, il suo spirito, essendo ormai morto di vecchiaia e di stanchezza qualche decennio fa - che compie un’azione su cui è necessario riflettere. Yoda si è addestrato a giudicare la storia non dal numero di vittorie accumulate o di sconfitte subite, ma dalla capacità di nutrire speranza, la speranza che si possa, con le proprie azioni, modificare quel segmento di vita che a ciascuno appartiene. Ciò che accadrà domani importa eccome, ma è sul presente che dobbiamo agire, senza delegare a nessuno ciò che potremmo fare noi. Lo spirito di Yoda coglie Luke disperato nel momento in cui sta per dare fuoco ai libri sacri dei jedi. Luke si ferma inorridito dal gesto che sta per compiere, ma Yoda ridendo del suo ex allievo porta a termine quell’impresa ai limiti del sacrilego e dà fuoco lui stesso ai libri sacri, che in pochi secondi ardono diventando cenere. E con loro se ne va quell’idea esclusiva ed elitaria che Luke ha della saggezza, come se fosse prerogativa di pochi, come se si potesse solo tramandare e non anche acquisire. Luke è incredulo, senza i libri è convinto che l’ordine jedi sia finito per sempre. Ma Yoda dirà a Luke che i nuovi jedi conoscono il contenuto di quei libri anche senza averli mai letti.

Eccomi quindi a interrogarmi su cosa significhi parlare di conoscenza innata e a ragionare sul rogo di libri. Perché bruciarli? Siamo abituati a pensare che i roghi di libri siano sempre un ritorno alle catene, all’oscurantismo e alla censura: perché il più saggio di tutti i saggi, bruciando libri, ritiene di creare speranza e di liberare la sapienza? È qui che Yoda parla dell’importanza del fallimento e dell’importanza di tramandare le conoscenze che dai fallimenti scaturiscono, nozioni che i testi sacri possono non contenere o almeno non come l’esperienza diretta di un maestro. Ed è qui la modernità del messaggio: i libri sono oggetti preziosi e viventi che non vanno custoditi in santuari ma usati fino a consumarli (il rogo significa questo: rendere cenere per usura) e la speranza può non giungere necessariamente dalle élite, da guide sapienti e sicure o piegate dai tanti, troppi fallimenti, ma magari da un ragazzino tenuto schiavo nell’angolo più remoto della galassia. Un ragazzino che del racconto dei fallimenti potrà fare tesoro e che quel racconto accenderà di nuova speranza. Uno immagina che i fallimenti del passato siano solo fallimenti, e lo sono, almeno fino a quando non diventano racconto, fino a quando non si analizza di essi ciascun segmento, che preso singolarmente è prezioso come la più gloriosa delle vittorie.