I “buonisti” come me si stanno dannando l’anima. I “buonisti” come me non riescono a capire come comunicare con chi mi scrive: “Da quando parli di immigranti non ti capisco, Roberto. Parli di loro e dimentichi gli italiani”.
Ovviamente ho sintetizzato in questa frase, tutto sommato gentile, anche gli insulti che spesso arrivano. Mi ostino a voler raccontare ciò che accade nel nostro Paese perché tutto ciò che accade, anche ciò che reputiamo marginale, ci riguarda; perché non esistono barriere invalicabili, porti chiusi, blocco degli sbarchi. Perché, tra le altre cose, non ci accorgiamo che, più ci occupiamo di fermare esseri umani che arrivano, meno vediamo e meno fermiamo ciò che davvero fa male al nostro Paese, alla sua economia e a noi.
Passare per la Turchia e per la Libia è un calvario per i migranti, ma è una pacchia per droga, armi e merce di contrabbando di qualunque tipo. Non esistono barriere, porti chiusi, frontiere invalicabili per i capitali proventi di traffici illeciti che si vogliano occultare. Ci accaniamo sulle persone e non vediamo droga e denaro, o si fa in modo che l’opinione pubblica si accanisca sulle persone proprio per distrarre l’attenzione da altro? Non sono incline al complottismo, ma data la pervicacia dei nostri politici ad accanirsi sugli uomini e a tralasciare tutto il resto, il dubbio credo sia lecito averlo.
Ma torniamo chi chiede maggiore attenzione all’Italia e agli italiani. Si ribalta un pulmino nel Foggiano e muoiono 12 persone, 12 braccianti agricoli, con ogni probabilità 12 vittime di caporalato. Con ogni probabilità 12 schiavi.
E allora? Sto ancora parlando di immigrati, solo di immigrati, o sto parlando anche e soprattutto di noi che, in Italia, abbiamo intere aree a vocazione prevalentemente agricola che ancora esistono solo grazie al lavoro di immigrati tenuti in condizioni di schiavitù? Dite la verità: sto parlando di immigrati o di noi?
Io non sono un politico, né lo sarò mai, ecco perché non ho la necessità di semplificare i miei messaggi, ma posso permettermi di renderli complessi, sperando che chi mi segue voglia insieme a me approfondire. I social sono diventati, invece, il luogo in cui la politica comunica prediligendo la semplificazione, il messaggio immediato, quello che o sei d’accordo o non lo sei, o dici “forza” o dici “merda”. Nessuna via di mezzo, nessun invito ad approfondire.
Gli immigrati nelle campagne viaggiano con mezzi di fortuna, su pulmini riparati con il fil di ferro. In una settimana nel Foggiano, in due diversi incidenti, sono morti prima 4 braccianti e poi 12. E se la legge 199 del 2016 sul caporalato è una legge fondamentale, per la quale tanto sangue è stato versato e in molti hanno lottato, è ancora una legge che resta, in moltissime aree del nostro Paese, inapplicata. I proprietari delle aziende agricole sono a conoscenza delle condizioni di lavoro dei braccianti, ma il sistema è criminogeno perché anche loro sono strozzati da una concorrenza cui non riescono a far fronte.
Quindi tutto avviene al ribasso, con la politica che utilizza le tragedie al più per fare passerelle, ma senza riuscire a farsi carico di un cambiamento vero che non riguarda solo i migranti ma l’intero settore agricolo. Ecco dunque che se parlo di immigrati, delle loro sofferenze, delle loro condizioni di vita inumane, sto parlando di noi, di noi tutti, di noi e di loro che alla fine diventa un noi collettivo esseri umani che condividono lo stesso destino. Non c’è nulla di romantico in questo “noi” e in ciò che dico e scrivo, ma solo pragmatismo. Garantire diritti significa pretenderne anche per se stessi. Essere distratti sui diritti degli altri significa mettere in conto di poterne fare a meno, anche per se stessi. Nulla di campato in aria, nulla di astratto. È tutto terribilmente e tragicamente concreto.
Se a chi vi parla degli immigrati schiavizzati nelle campagne, sui cantieri, nel settore logistico e del turismo, rispondete che volete sentir parlare degli italiani, sappiate che queste storie è soprattutto di noi che parlano: di persone che non hanno problemi a convivere con forme di schiavitù che non sono nemmeno moderne, ma identiche a quelle che abbiamo studiato a scuola e che ci hanno fatto inorridire, che ci hanno fatto dire: io avrei detto di no, io avrei protestato, io avrei manifestato accanto ai deboli perché una società aperta è una società che cresce e, quindi, è una società più ricca.
Camorra10.11.2011
Quel processo, la mia speranza