Per anni, ?lo Stato democratico ha reagito blandamente e tardivamente. Allo stesso tempo, ogni sforzo di elaborare il lutto del Ventennio con una lettura condivisa è stato frustrato da approcci non storici, ma schematici, al servizio di polemiche contingenti

Il cronista di quei fatti lontani non dimentica l’atmosfera plumbea degli anni Settanta. La giornata in redazione era scandita da eventi drammatici, violenze programmate, spedizioni punitive. Morti. Stragi. Vendette di gruppi, assalti con spranghe e bastoni a sedi di partito facevano da triste contrappunto ad attentati sanguinosi, a spari, a bombe in piazza e sui treni. Da un anno all’altro si erano moltiplicate le rune, le svastiche, le sigle dietro le quali si nascondeva solo la missione della caccia all’uomo: con la solita Avanguardia nazionale ecco Fronte Delta, Aquile nere, Centro Europa, Squadre di azione Mussolini… Difficile distinguere tra il militante neofascista e il professionista del terrorismo nero.

Oggi guardi il video con le braccia tese per Acca Larentia, leggi i resoconti dell’aggressione a Federico Marconi ?e a Paolo Marchetti, compreso il commento a corollario: «L’Espresso ?è peggio delle guardie» (che peraltro hanno assistito a tutto, ma non sono intervenute quando dovevano), e il pensiero corre proprio a quegli anni neri e al virus fascista latente e indomabile. Che nel 2018 si è manifestato, multiforme, decine di volte, dalla Macerata dell’uomo bianco alle “pietre d’inciampo” divelte nel centro di Roma. Lo dici e ti fermano con un gesto di sufficienza: ma il fascismo è altro, è Minculpop e olio ?di ricino, piazza Venezia e la guerra ?con Hitler. Certo, è ovvio, niente facili paragoni. Ma tale assunto dovrebbe spingere a interrogarsi, a scavare ciò che si muove nella società, non a costruirsi un comodo alibi per fare ?finta di niente.

Ciclicamente, il fenomeno si ripete. Negli anni Settanta Giorgio Amendola vedeva di nuovo «la vecchia Italia, la vecchia anima, la vecchia eredità fascista» e non solo nelle violenze, per esempio ne individuava «una manifestazione morbosa nella gara degli egoismi corporativi». Figuriamoci. E solo un anno fa La Nave di Teseo ha pubblicato un saggio di Umberto Eco dal titolo inequivocabile: “Il fascismo eterno”. Poche pagine per avvertire che il fascismo può ritornare anche senza campi di concentramento, «ma sotto le spoglie più innocenti». Cioè nascondendosi dietro culto della tradizione e rifiuto del modernismo, la paura del diverso e l’appello alle classi medie frustate, il populismo e l’ossessione del complotto. Il Parlamento umiliato, la stampa disprezzata. Vi ricorda qualcosa?

Resta da chiedersi perché la lunga cura antifascista non abbia sortito gli effetti sperati. E perché rigurgiti di fascismo si manifestino di nuovo ora, dopo un lungo letargo. Per anni, ?lo Stato democratico ha reagito blandamente e tardivamente, quasi a confermare la tesi di chi vede proprio nell’amministrazione pubblica la vera continuità con la “vecchia Italia” temuta da Amendola. Allo stesso tempo, ogni sforzo di elaborare il lutto del Ventennio con una lettura condivisa è stato frustrato da approcci non storici, ma schematici, al servizio di polemiche contingenti. In quanto alla politica, non ha avuto il coraggio di bonificare le paludi in cui il virus allignava. Né è stata capace di arginare insofferenze, scontentezze, insoddisfazioni che lo alimentano. Insomma se il fascismo non c’è, tutti gli elementi che lo hanno tenuto in vita sono stati via via tollerati e legittimati. Oggi con il contributo del “governo ?del cambiamento”.

Dinanzi a episodi come Acca Larentia, Matteo Salvini balbetta, mentre trova voce, selfie e tweet per evocare stagioni e linguaggi utili alla sua propaganda: «Non mollo», «Chi si ferma è perduto», «L’asse Roma-Berlino», «Molti nemici molto onore». Luigi Di Maio si rifugia nell’afasia e dunque ?non resta che ricordare il suo no ?alla proposta di legge Fiano contro l’apologia di fascismo, giudicata “liberticida”, o le parole di Beppe Grillo sul movimento 5Stelle che «non è né ?di destra né di sinistra, ma oltre». ?Oltre l’antifascismo.

Tenuto sotto traccia, il fenomeno è riemerso con l’irrompere sulla scena ?di Silvio Berlusconi che nel ’94, rovesciando la vulgata e grazie al maggioritario, ha chiamato gli italiani ?a votarlo in nome dell’anticomunismo, non dell’antifascismo. Non prima di aver sdoganato e poi fagocitato la destra di Gianfranco Fini. Si sa come è andata. È in quel momento, forse, che tutto è cambiato, o almeno un lungo processo è arrivato a maturazione, e per la prima volta si è incrinato il patto politico-istituzionale siglato subito dopo la Liberazione da Dc e Pci in nome dell’antifascismo: evocato dal Pci come legittimità democratica e speranza dell’alternanza, e dalla Dc per non dirsi né fascista né comunista.

Oggi di quella lunga stagione restano le parole e il blocco sociale cui sono rivolte, le felpe d’ordinanza e la missione politica che ne è sottintesa. I due ispiratori di quell’accordo lontano sono stati dispersi e riciclati dalla storia; e invece che un patto, ora c’è ?un Contratto, con altre firme, tra i cui riferimenti non figura l’antifascismo. Che poi, a ben vedere, fu anche il collante da cui nacque la Costituzione. Ieri Di Maio e Salvini l’hanno salvata, forse solo in odio a Renzi, oggi dicono di volerla cambiare. E a quel punto avranno chiuso il cerchio.