In discussione la legge sulla consultazione propositiva. Ecco perché stavolta sembra una buona riforma
Avanza a piè veloce un referendum. Ma lungo la strada risuona un concerto d’appelli, di allarmi, d’altolà. Questa trovata - dicono - sarà la tomba del Parlamento. E la democrazia morirà d’un eccesso di democrazia. Colpa, per l’appunto, della nuova creatura: il referendum propositivo. Peraltro niente affatto nuova, essendo già stata concepita dalla Costituzione di Weimar del 1919, un secolo fa. Nella versione italiana funziona così: 500 mila elettori depositano una proposta ?di legge popolare, le Camere hanno 18 mesi per accoglierla, altrimenti quest’ultima viene sottoposta a referendum. E il referendum passa se raccoglie i consensi del 25 ?per cento del corpo elettorale. Un’eresia costituzionale? No, una buona riforma, e per una somma ?di ragioni. Che sono almeno tre, come i moschettieri di Dumas.
Primo: il metodo. A differenza delle riforme napoleoniche di Berlusconi (2005) e Renzi (2016), che nel primo caso avrebbero riscritto ?55 articoli della Costituzione, ?nel secondo caso 40, stavolta il governo propone un intervento specifico, puntuale. Il suo progetto coinvolge solamente l’articolo ?71 della Carta, e già questa è una cautela contro nuove Waterloo. È anche una forma di rispetto verso un’altra norma costituzionale: l’articolo 138, che detta il procedimento di revisione costituzionale. Fu congegnato per interventi singoli, non per riforme che ambiscano a creare di nuovo l’universo. Come disse Luigi Einaudi in Assemblea costituente: una riforma per volta, altrimenti gli elettori non si renderanno conto ?su cosa debbano votare, quando dovranno confermare o bocciare la riforma nel successivo referendum.
Ma in questo caso il metodo è corretto anche per un’altra ragione: perché durante i lavori in commissione la maggioranza ha accettato un paio d’emendamenti del Pd, rinunziando per esempio al “quorum zero”; e perché in seguito ha rinunziato pure all’eventuale ballottaggio fra il testo votato dalle Camere e quello scritto dai promotori, accogliendo un’altra istanza dell’opposizione. Giusto così, le regole del gioco si cambiano con il consenso di tutti ?i giocatori.
Secondo: il merito. Dopotutto, ?si tratta di consegnare agli elettori una scheda in più, non una di meno. Se abbiamo così paura ?delle decisioni popolari, tanto vale abolire le elezioni. Ma non è vero, non è affatto vero, che la democrazia diretta inoculi un veleno nel corpo della democrazia rappresentativa. Al contrario, può rinvigorirla, restituirle smalto. ?I Parlamenti sono in crisi dappertutto, sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico; non a caso, negli Usa il politologo Benjamin Barber suggerisce di rimpiazzarli con un congresso di sindaci, che quantomeno esprimono le istanze dei propri territori. E non a caso ?il referendum congegnato dal ministro Fraccaro coincide come ?un guanto con la proposta dei 35 «saggi» insediati dal governo Letta: si pone un vincolo alle Camere d’esaminare le leggi popolari, ?fin qui un fantasma del nostro ordinamento; e se le Camere s’oppongono, decide il corpo elettorale.
Terzo: la sincerità. Le parole sincere possono cambiare il mondo, diceva Buddha. Ma sta di fatto che proprio ?i referendum hanno abituato gli italiani all’artificio, all’insincerità. Perché i costituenti ci hanno messo in tasca soltanto il referendum abrogativo, per azzerare un’intera legge o una sua parte. Dopo di che, lavorando di forbici, cancellando una parola di qua una virgola di là, siamo riusciti a trasformare i referendum abrogativi in referendum sostanzialmente innovativi, che cambiano la legge, anziché abrogarla. La seconda Repubblica nacque così, con un referendum manipolativo in materia elettorale. La riforma, quindi, non è una novità assoluta, però introduce un elemento di chiarezza. E abbattendo il quorum di validità del referendum, disinnesca la mina che in passato ne ha fatti saltare a decine, attraverso l’astensionismo organizzato. In futuro, niente trucchi: o sì o no, ?e su una proposta comprensibile. Meglio tardi che mai.