La politica discute della terza riforma elettorale in quattro anni. Siamo un caso unico al mondo: perché all'estero tornano a votare e spesso hanno la stessa legge da decenni
Quest’anno in
Israele hanno votato già due volte (in aprile e in settembre). E magari fra un paio di mesi voteranno ancora, dato che nessuna coalizione ha i numeri per controllare la Knesset, il loro Parlamento. Invece in
Spagna si voterà a novembre: le seconde elezioni in 7 mesi e le quarte in 4 anni, dopo una diaspora continua fra i partiti di sinistra. Loro usano così: quando la politica non riesce a offrire soluzioni, cambiano in corsa il Parlamento. Noi italiani, viceversa, cambiamo la
legge elettorale. Sicché ne prospettiamo l’ennesima riforma, pur avendola modificata già sei volte (nel 1948, nel 1953, nel 1993, nel 2005, nel 2016, nel 2017) durante l’età repubblicana. A differenza della Francia, che mantiene la stessa legge elettorale dal 1958. Della Germania, la cui normativa risale al 1956. Senza dire degli inglesi, che nel Seicento brevettarono il loro sistema uninominale a un turno (first past the post), e d’allora in poi non l’hanno mai cambiato.
In questa forma di nevrosi si riflette un tratto del nostro costume nazionale. Siamo la patria del diritto, con il record planetario d’avvocati (242 mila) in rapporto alla popolazione, con 50 mila leggi statali e regionali sul groppone, con 3,6 milioni di processi civili pendenti nei nostri tribunali. Dunque ogni problema ha la sua regola, anche se di solito è proprio la regola il problema. Da qui riforme napoleoniche della Costituzione (Berlusconi nel 2005, Renzi nel 2016), all’insegna d’un motto sempreverde: governabilità. Come se l’incapacità d’esprimere un’azione di governo fosse colpa delle norme, non delle persone. Da qui, inoltre, il cantiere perennemente all’opera sulla riforma elettorale.
Non che la scelta di questo o quel sistema diventi un abito buono per tutte le stagioni. Le leggi dipendono dai tempi, dai cicli della storia. Però dovrebbero ospitare un nucleo unificante, nel quale si rispecchia l’unità di ciascun popolo, delle sue tradizioni, della sua cultura. O perfino del clima, come diceva Montesquieu. Sennonché, alle nostre latitudini, la legge elettorale rimbalza fra due poli (maggioritario e proporzionale) come una pallina da ping pong, senza che nessuno riesca mai a fermarla. Così, durante la metà dell’Ottocento l’Italia divenne Stato attraverso un maggioritario uninominale a doppio turno. Sostituito nel 1882 da un proporzionale, poi nel 1891 di nuovo dal maggioritario, poi nel 1919 di nuovo dal proporzionale, poi nel 1923 dal supermaggioritario di Mussolini, poi nel 1946 dal superproporzionale che elesse l’Assemblea costituente, e via via, fino al maggioritario che ci ha condotto ai lidi della seconda Repubblica.
E ora? A
bbiamo in circolo un maggiorzionale, mettiamola così. Si chiama Rosatellum, povero figlio: due terzi dei parlamentari eletti con un proporzionale, un terzo con i collegi uninominali. Sommando perciò ai difetti del primo sistema (la frantumazione del quadro politico) quelli del secondo (scarsa rappresentatività). Che adesso i nostri statisti vorrebbero correggere, per la terza volta in 4 anni. Ma non per ricondurlo alla coerenza, non per
l’esprit de géométrie vagheggiato da Pascal. Né perché sia alle viste un cambio di stagione, una curva della storia che reclama nuove istituzioni. No, l’ultima trovata è figlia di calcoli politici, di tornaconti di partito. Come del resto la penultima, o anche la terzultima, quando Berlusconi sposò il Porcellum per tirare uno sgambetto a Prodi, che invece nel 2006 vinse le elezioni. Se avesse conservato il Mattarellum, avrebbe vinto lui. L’eccesso di furbizia porta male, ma i politici italiani non hanno mai imparato la lezione.
Così, a sinistra progettano
un proporzionale puro per sterilizzare l’ascesa di Salvini, oltre che per garantire un posto al sole al partitino di Renzi. Mentre Salvini, di converso, pretende un maggioritario puro, indicendo il settimo referendum elettorale degli ultimi trent’anni (li abbiamo celebrati nel 1991, nel 1993, nel 1995, nel 1999, nel 2000, nel 2009). C’è allora un’unica richiesta da spedire ai signori del Palazzo: fate come vi pare, ma inserite nella nuova legge un codicillo, una clausola di salvaguardia. Chi in futuro vorrà cambiarla ancora, deve versare una tassa al nostro erario. Stai a vedere che finalmente risaniamo il bilancio dello Stato.