Vakhtang Enikidze, georgiano, 38 anni, recluso nel Cpr di Gradisca, Gorizia. Era sotto la tutela delle nostre istituzioni. Ne è uscito cadavere

Morire come Stefano Cucchi, nelle mani dello Stato

Martedì 21 gennaio, la notizia di oggi, mentre scrivo, la dà il Riformista. Vakhtang Enikidze, un uomo georgiano di 38 anni, è morto sabato 18 gennaio nel Cpr di Gradisca d’Isonzo, dove si trovava da un mese dopo essere stato trasferito lì da Bari. Il racconto lo fa Riccardo Magi, parlamentare di +Europa, che è riuscito a entrare nel centro e a parlare con i “reclusi” che non sono detenuti, ma ai quali, come racconta Magi, quando entrano nel Cpr viene spaccata la fotocamera del cellulare perché non possano fare foto a testimonianza di ciò che accade e delle condizioni in cui vivono. Però dopo la morte di Vakhtang Enikidze un video sembra sia uscito e, quando Magi è arrivato al Cpr, gli agenti avevano appena bonificato tutti i cellulari.

Facciamo un passo indietro. Il 14 gennaio Vakhtang Enikidze aveva avuto una colluttazione con un altro ospite del centro, ma tutte le persone con cui Magi ha parlato, compreso il poliziotto presente durante la sua visita ispettiva, hanno negato che la morte di Vakhtang Enikidze fosse riconducibile a quell’episodio, sedato dall’arrivo della polizia. Dai racconti dei presenti emerge che, nella rissa con l’altro ospite del centro - un ragazzo marocchino più giovane e meno forte fisicamente - Vakhtang Enikidze stesse avendo la meglio quando sono arrivati i poliziotti che hanno posto fine alla rissa e portato via Enikidze. Questi pare abbia trascorso un giorno e mezzo in carcere e, quando viene ricondotto al Cpr di Gradisca, è in agonia, come riferiscono i testimoni sentiti da Magi. La mattina successiva viene portato in ospedale in ambulanza, ma vi arriverà già cadavere.

Questa è la versione dei fatti che riporta Riccardo Magi sul Riformista. Magi è poi andato in Procura a Gorizia per riportare nella sede appropriata le conoscenze cui è giunto in seguito alla sua visita ispettiva.

Nel Cpr ci sono telecamere installate da poco, pare a metà dicembre, mi auguro che fossero funzionanti e che possano fare chiarezza. Allo stesso modo mi auguro che tutti i possibili testimoni non siano prontamente rimpatriati, come è già accaduto a un kosovaro rimpatriato subito dopo la morte di Vakhtang Enikidze e che, però, avrebbe fatto in tempo a parlare dell’accaduto con il suo avvocato.

Vi ho raccontato i fatti, vi risparmio le considerazioni finali di Riccardo Magi e non perché siano secondarie, accessorie o inutili. Vi risparmio il racconto di cosa siano i Cpr, di come vivano lì dentro persone che non hanno commesso alcun reato. Vi risparmio tutto questo perché è troppo doloroso. Troppo. Troppo doloroso sapere che ci sono esseri umani trattati peggio delle bestie.

E mentre tutto questo accade, il Paese segue gli scioperi della fame di un politicante che, insieme a tanti altri della sua schiatta, ha ridotto la politica a qualcosa di molto peggio di una barzelletta.

Il satyagraha è la disobbedienza civile di Gandhi, di Mandela, di Martin Luther King. Da noi Marco Pannella usava la pratica nonviolenta dello sciopero della fame e della sete, che lui chiamava appunto satyagraha, come risposta a un male collettivo. Nessuno ha mai osato invitare al digiuno la collettività per sottrarre al processo un solo piccolo e insignificante uomo che, nell’esercizio del suo potere e soprattutto abusando del suo potere, sostenuto da altri piccoli e insignificanti uomini come lui, ha danneggiato e non difeso la collettività.

Lo sciopero della fame lo si può, invece, ragionevolmente invocare per chi è illegalmente detenuto - non ospitato, ma proprio detenuto - nei centri di Identificazione ed Espulsione, per chi - come hanno sempre fatto i Radicali e come continua a fare Rita Bernardini - vive nelle carceri italiane una detenzione che non è rieducazione ma tortura. Volgiamo lo sguardo verso chi, senza la nostra attenzione, viene privato della libertà e della vita e non verso chi usa la nostra attenzione per alimentare il proprio vuoto.

Noi, per esistere, non abbiamo bisogno di contrapporci a loro. Noi esistiamo se raccontiamo ciò che è successo in Italia, in una democrazia, a Vakhtang Enikidze, morto mentre si trovata sotto la tutela dello Stato.

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