La serie tv coreana ci mostra un mondo di disperati senza prospettive. Per loro non ha senso l’idea che votando possano cambiare le loro vite

La prima volta che andai in Cina lo feci, come moltǝ, con la presunzione eurocentrica di chi viene da un paese democratico e pensa di poter guardare con superiorità evolutiva a tutti i sistemi governati in modo politicamente meno partecipato. Mi bastò una settimana di conversazioni con le persone del posto per abbassare la cresta della spocchia occidentale e comprendere che quello che chiamiamo democrazia è marxianamente una sovrastruttura, molto più conseguenza che non causa, e che è segno di poca consapevolezza civica dare per scontato che chi vive in contesti gestiti con altri metodi sia automaticamente una persona oppressa che “vorrebbe essere noi”.

A distruggere ogni ingenuità in merito è sufficiente il dato dell’astensione italiana alle ultime elezioni, nelle quali una persona su due non ha votato. Nelle grandi città, a non tirare nemmeno fuori il certificato elettorale sono state addirittura sei persone su dieci. Per alcunǝ è un episodio di disamoramento, ma per moltissimǝ altrǝ è una prassi da anni, una delle poche evidenze misurabili del silenzioso disinteresse collettivo a tutti gli aspetti della partecipazione alla gestione della cosa pubblica.

Ricordo ancora le parole del funzionario statale pechinese, che sulla sovrastima del desiderio di partecipazione civica mi disse con serenità: «Il nostro sistema garantisce sicurezza sociale e un’economia forte. Mi creda se le dico che le persone che vogliono qualcosa di diverso da un governo non sono molte da nessuna parte». Allora provai a smentirlo con slancio, ma oggi sono costretta a domandarmi cosa succederebbe se fermassi dieci persone in una strada qualunque di una città italiana a caso e chiedessi loro a bruciapelo se preferiscono avere stabilità economica o diritti politici. Avrei paura di scoprire quanto sia più che probabile un’alta percentuale di risposte sulla prima opzione.
 

Se siete capitati nelle pieghe narrative della serie tv del momento, la coreana “Squid game”, la questione vi sarà stata posta attraverso un brillante espediente inserito in una sceneggiatura che non ne ha molti altri. Non c’è niente di innovativo nell’idea di un gioco al massacro tra poveri per il divertimento dei ricchi: dai giochi del Colosseo a “Hunger Games”, passando per “Running man” o “La lunga marcia”, la messa in scena distopica della lotta sociale per la sopravvivenza è un topos narrativo più che consunto. “Squid Game” però aggiunge al già visto qualcosa di più e di peggio: mettendo in scena sin troppo didascalicamente come funziona il sistema del debito in Corea, inserisce per gli sventurati partecipanti al gioco mortale anche la possibilità di votare l’ipotesi di uscirne. Lo fa attraverso un meccanismo brutale a due sole opzioni che ricorda le dinamiche della piattaforma Rousseau, o volendo cercare esempi più nobili, quelle del processo pilatesco con scelta diretta tra Gesù e Barabba.

Il dato interessante è nel risultato: che i partecipanti scelgano di uscire dal gioco oppure no, la loro condizione sostanziale di condannatǝ a morte non varia. O vengono uccisǝ sul colpo perdendo una delle sfide infantili della competizione, o moriranno comunque fuori da lì, disperandosi nelle spire del debito in una società capitalista iper competitiva come quella coreana, dove non esiste un welfare nel senso europeo del termine. La possibilità di votare e la politica stessa vengono così descritte come un epifenomeno, qualcosa che in condizioni di forte dislivello economico in realtà non serve a niente, anzi offre al meccanismo mortale la certificazione illusoria di essere agito con il consenso delle persone condannate. Per moltǝ questo è già vero anche in un paese democratico come il nostro, dove la scelta elettorale è percepita come parte di un meccanismo narrativo finzionale: andare a votare e chiedersi se vincerà una destra o una sinistra appare un intrattenimento come un altro, il lusso sfizioso di chi non convive con la paura ben più radicale di perdere tutto.

Quella di “Squid Game” sembra una distopia solo a chi non ha sperimentato i limiti di una società che non perdona il fallimento: per tuttǝ glǝ altrǝ è banalmente la realtà.