Opinione
Il campo largo indicato dal segretario del Pd deve fondarsi sul realismo politico. E il partito ripensarsi come soggetto del riformismo forte e perseverante
di Massimiliano Panarari
Quando la politica, come noto, è l’arte del possibile e pure, talvolta, dell’impossibile. Può così capitare, di recente, che Enrico Letta etichetti gli accordi sul clima usciti dal G20 come insoddisfacenti, e siano invece i ministri 5 Stelle a parlare, addirittura, di esiti «straordinari». Nella fattispecie, chiaramente, potrebbe anche essere tattica, e un gioco delle parti tra i due contraenti dell’ancora problematico «campo largo» di centrosinistra.
Giunti a questo punto dell’eterna transizione politico-istituzionale italiana, e praticamente alla vigilia della decisiva partita del Quirinale che sta surriscaldando l’atmosfera, vale invece la pena di interrogarsi sulla strategia del Pd, reduce dal trionfo nelle amministrative, seppur con un livello molto alto di astensionismo, e dalla successiva sconfitta parlamentare sul ddl Zan.
A oggi, come ha ripetuto il segretario Enrico Letta, si tratta di una strategia della responsabilità e della ferma adesione al «governo di ricostruzione nazionale». Ma sotto la cenere il fuoco cova, e qua e là emergono dei distinguo e si avvertono brontolii e insofferenze. I dubbi su quanto paghi elettoralmente una strategia della responsabilità non sono, naturalmente, di adesso, e hanno dei fondamenti. Ma il Pd è nato precisamente come il partito di sistema e del primato della difesa delle istituzioni: e quando va adottata una condotta responsabile se non in una fase, come quella attuale, di sostanziale crisi sistemica, con la saldatura di emergenze nuove e problematiche strutturali di lungo periodo?
Un dna che non andrebbe dimenticato, e ha posizionato il Partito democratico quale forza di centrosinistra, opportunamente lontana da quella simpatia per le velleità antagonistiche che, da qualche tempo a questa parte, pare invece riaffiorare al suo interno. Anche se effettivamente, altro dato di fatto, in alcuni passaggi della sua storia non è stato capace di dispiegare la capacità trasformativa progressista che era necessaria. Proprio a queste spinte per rifare un partito di sinistra “pura” stile i vecchi Ds («vasto programma» dentro la condizione postmoderna...) si devono alcune forme di strabismo cognitivo. La prima delle quali, naturalmente, porta a sopravvalutare la qualità (concezione della politica) e quantità (numero di voti) dell’apporto del Movimento 5 Stelle, ed è un lascito della mai tramontata teorizzazione dell’«alleanza strutturale», respinta, peraltro, dalla stessa maggioranza dei pentastellati.
E, in ogni caso, questa voglia di sinistra-sinistra non costituisce la missione del Pd, da qualunque angolo di osservazione la si voglia prendere e, tatticamente, identifica un compito che nella coalizione ampia pensata da Letta dovrebbe venire svolto da altri attori. Altrimenti si corre il rischio di scambiare il populismo, la diffidenza verso i tecnici e la disintermediazione, spacciata per «democrazia più diretta», per delle espressioni della sinistra, perdendo anche, come ha scritto qui Marco Bentivogli, «rappresentanza di buonsenso».
Nel delicatissimo contesto attuale, non ancora postpandemico, il buonsenso – da non confondere con il senso comune vellicato dai populsovranismi – si identifica innanzitutto con il «metodo Draghi», e con il lavoro di «messa in sicurezza», sebbene segnato da talune fibrillazioni dei partiti, che sta conducendo il suo esecutivo. Senza cadere in un eccesso di personalizzazione, poiché la politica troppo personale è uno dei problemi di fondo, ma nel doveroso riconoscimento di una metodologia di governance e di un approccio tecnico-politico basato anche sul pragmatismo (e, per l’appunto, sul buonsenso).
Perciò, «crocianamente», il Pd non può non dirsi draghiano in questa contingenza storica. Come suggerisce pure il commissario Ue Paolo Gentiloni quando osserva che «in Italia il dibattito si focalizza su temi molto importanti come i diritti, mentre sull’economia è come se pensassimo di avere i duecento miliardi del Recovery già in tasca» – un fiume di risorse la cui erogazione richiede come amministratore l’ex presidente della Bce. E, ancora, come ribadivano di fatto i maggiori esponenti internazionali dei partiti socialisti convenuti a Roma per il Global progress summit, tutti concordi nell’esprimere grande apprezzamento per Draghi leader europeista.
Il «campo largo» indicato da Letta deve fondarsi sul realismo politico e fare propri i risultati del «riformismo dall’alto» – se tale lo si considera – che, naturalmente, va ben spiegato (e metabolizzato), ma si rivela tanto più indispensabile in questa temperie di antipolitica sempre aggressiva, dominata dal «pensiero magico» (e da un’indiscutibile regressione culturale). E, sulla scorta di questo passaggio imprescindibile – coincidente con quel contributo alla stabilizzazione del Paese che è la finalità primaria del governo Draghi –, il Pd deve ripensarsi, nel nuovo quadro politico che si verrà creando, come soggetto del riformismo forte e perseverante. Portatore di sperimentalismo democratico (per usare la formula di Fabrizio Barca) ma «ben temperato», in primis dall’avere saputo cogliere oggi la finestra di opportunità – e non la gabbia d’acciaio, come pensa qualcuno – del metodo Draghi. Anche nel caso di trasloco sul Colle, scommettendo su di esso quale «primo passo verso il ritorno alla normalità», come scriveva Marco Damilano poche settimane fa.