Era il dicembre del 1971, 50 anni fa. E il capo della Democrazia Cristiana si fece da parte nella corsa alla presidenza della Repubblica per non spaccare il partito. Ma erano altri tempi

Caro direttore, se posso approfittare della sua ospitalità per un’annotazione personale ma forse non del tutto irrilevante, ricordo che nel dicembre del 1971, a ridosso di Natale, mentre erano in corso le votazioni per il Quirinale accompagnai i miei genitori (ero adolescente, all’incirca) ad una cena a casa di Franco Roccella, portavoce di De Martino e monumentale intelligenza politica di quel tempo. A tavola prese posto anche De Martino, segretario del Psi, che a un certo punto prese da parte mio papà e gli disse più o meno così: è il momento di rompere gli indugi, da domani siamo pronti a votare per Moro, glielo dica anche lei.

 

Moro ovviamente era al corrente che i socialisti, i comunisti e una parte della Dc - quanti bastavano, tutti insieme, a far maggioranza - erano pronti a votarlo e perfino ansiosi di farlo. Ma proprio quella stessa sera di dicembre si erano per l’appunto riuniti i parlamentari democristiani e, sia pure con una striminzita maggioranza, avevano scelto Leone come loro candidato, bruciando le schede subito dopo. E Moro a quel punto aveva deciso di fare buon viso a cattivo gioco.

 

Era un’epoca in cui i partiti erano grandi e grossi - fin troppo, si dirà. E la plancia di comando di quel sistema politico tendeva a considerare il Quirinale non proprio come un ornamento ma quasi. È pur vero che a suo tempo Segni era stato un “capo”, e che il presidente uscente, Saragat, era il leader storico dei socialdemocratici. Così come era risaputo che il leader più vigoroso di quell’epoca, Amintore Fanfani, si dava da fare con la consueta tenacia per scalare il Colle a dispetto delle avversioni che incontrava. Ma i luoghi cruciali erano altri, e non si poteva non tenerne conto.

 

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Vigeva quasi una regola di sottomissione delle istituzioni rispetto ai partiti. Compensata dalla sottomissione dei leader rispetto alle loro comunità politiche. Un complesso sistema di equilibri che di tanto in tanto ci si riprometteva di modificare, salvo poi aver timore di modifiche eccessive. E così la consuetudine finiva per avere la meglio sia sui buoni propositi che su qualche altro proposito un po’ meno buono.

 

Ovviamente anche per Moro l’elezione a capo dello Stato sarebbe stato il suggello di una carriera politica che lo aveva visto in primissimo piano negli ultimi dieci anni e più. Tuttavia la sua regola era dedicata più a costruire equilibri che a concedersi forzature, e non contemplava mai troppe eccezioni. Decidendo di non candidarsi per non farsi votare solo da una parte (la parte più piccola) del suo partito, Moro sceglieva di presidiare il lato più strategico della costruzione politica del tempo. Rinunciando così al lato che forse lo avrebbe messo al riparo del suo destino - anche se di questo all’epoca non c’erano avvisaglie tanto minacciose.

 

Tutto questo per dire che la corsa verso il Quirinale è sempre stata fatta di candidature che vanno e vengono, di persone che si offrono e altre che si negano, di chi sceglie di esporsi e di chi pensa invece sia meglio ritrarsi, di caratteri assertivi e all’opposto caratteri più discreti. E soprattutto della continua altalena dialettica tra chi fa conto solo dell’attimo fugace in cui comincia un settennato e chi spinge la sua immaginazione un po’ più in là, fin verso le conseguenze più lontane che ne possono discendere.

 

Accettando quei voti che gli venivano offerti, Moro sarebbe probabilmente andato incontro - almeno per se stesso - a un epilogo diverso. Cosa che all’epoca nessuno poteva neppure lontanamente immaginare. Resta il fatto però che a quel tempo defilarsi poteva essere il modo meno banale per cercare di primeggiare. Ma si trattava, appunto, di un altro tempo. Mezzo secolo fa, tondo tondo, proprio di questi giorni.