Sono alla cassa, in attesa di pagare per un pacchetto di forcine. Un uomo entra nel negozio. Ha in mano dei calzini, chiede alla proprietaria di acquistarne un paio per dargli una mano a tirare avanti, perché ha perso il lavoro da mesi e ha una famiglia a cui badare. Ma la donna, intenta a strappare uno scontrino inceppato dalla cassa, lo ignora con tutte le sue forze. Non ne vuole sapere di avere tra i piedi quello che per lei è uno straccione che sta solo provando ad estorcerle del denaro. L’uomo allora, prova a fare appello all’italianità.
«Siamo italiani signò, c’è la crisi, il Governo non fa nulla e io ho bisogno. Datemi una mano». Ma quando poi arriva il mio turno, e faccio per tirare fuori dal portafoglio una banconota da cinque euro, l’uomo esplode. Improvvisamente.
Schiuma di ferocia come un cane rabbioso punto da una vespa, mi urla contro, tenendo lo sguardo fisso sulla proprietaria e sulla cassa chiusa, e le chiede perché il Governo dia una mano a «questi immigrati» con trentacinque euro al giorno mentre a lui, niente. Non un sussidio, né un briciolo di risposte.
Pago velocemente e scappo dal negozio. Ma il senso di familiarità che mi provocano le sue parole è forte. Parole identiche e precise a quelle ascoltate la sera prima in un talk show politico. Si parlava di immigrazione, come al solito. E le parole per raccontare un fenomeno tanto complesso erano proprio le stesse utilizzate da quell’uomo. Vengono qui, si mettono comodi, fanno i clandestini e in più ricevono trentacinque euro al giorno, mentre gli italiani, i poveri italiani padroni legittimi in casa propria, muoiono di fame.
Djarah Kan
Questo aneddoto risale al 2016, a mio avviso l’anno di espansione massima della bufala dei trentacinque euro al giorno, non un centesimo di più, né di meno.
L’hanno chiamata appunto bufala, derubricando un autentico caso di disinformazione a una “notizia falsa” che per un po’ è andata di moda tra le persone, ma il punto cruciale è che la gente ci credeva davvero, voleva crederci e la televisione italiana faceva tutto ciò che era in suo potere per raccontare quella storia. I corpi degli immigrati – che fossero vivi o morti non importava – scorrevano su schermi giganti in prima serata, pronti ad essere dati in pasto a un popolo depresso, confuso e impoverito da una crisi che da dieci anni stentava a dare loro tregua.
Non sono il tipo di persona che incolpa la tecnologia e i media per tutti i mali del mondo. Tuttavia, guardando la televisione italiana ho sempre avuto come l’impressione che l’Italia non fosse un Paese per giovani. E nemmeno per giovani italiani che non siano bianchi o millennials e neri all’incirca quanto me.
Da nera italiana che guarda la tv, un paio di cose su quello che si può o non si può dire in televisione, le ho capite.
Ad esempio, in televisione non si possono offendere gli ebrei, perché giustamente si verrebbe accusati e ostracizzati in quanto antisemiti. E non si possono nemmeno sostenere discorsi a favore della violenza di genere in tutte le sue forme. Sarebbe diseducativo e assurdamente dispregiativo nei confronti delle vittime di abusi e di femminicidi che lottano contro le oppressioni di genere ogni giorno della loro vita. Dunque, niente antisemitismo e maschilismo senza veli. Non si può nemmeno bestemmiare. C’è molta attenzione per le fede religiosa altrui (quando ovviamente sei cristiano-cattolico) ma sul razzismo non sempre c’è una posizione chiara.
Il razzismo è una zona grigia e melmosa che viene tollerata abbastanza bene dalla televisione italiana. Non è mai riuscita ad essere una cosa grave, e anche se il politically correct sembra essere percepito come una moderna piaga d’Egitto, in Italia, si può ancora essere razzisti senza che nessuno si scandalizzi eccessivamente. Basta restare nei limiti della decenza. Limiti che qui in Italia sono parecchio larghi e che in qualsiasi altro Paese europeo verrebbero considerati pura barbarie.
Ci si accorge che la televisione italiana non contempla l’esistenza di un pubblico non bianco proprio quando si assiste ai talk show politici.
Gli insulti, i servizi tendenziosi, gli ospiti “controversi” che vengono invitati a fare sfoggio della loro intolleranza, sono tutti parte di uno zoo in cui gli immigrati sono l’attrazione del giorno. Uomini e donne senza il dono della parola che, sullo sfondo, elemosinano, pisciano e spacciano, di fronte a un pubblico inorridito e incalzato a reagire in un’unica maniera possibile: andate via.
Per gli autori che pensano e progettano questi programmi tv siamo gli immigrati di seconda generazione, quelli che ereditano uno status giuridico dal sangue, in un mondo che fa tutto ciò che è in suo potere per accettare il fatto che il sangue non crea esseri umani di serie A e B. Siamo quelli che vorrebbero essere italiani ma non potranno mai diventarlo davvero, perché gli unici italiani accettabili sono quelli di pelle bianca. Siamo quelli che arrivano con i barconi, quelli che si fanno accogliere a spese dei contribuenti, quelli che sono sempre troppi, quelli che devono ringraziare l’Italia per non averli fatti morire in mare, quelli che si fanno spostare da un centro di accoglienza all’altro, quelli che tremano perché scappano dalla guerra, quelli che invadono, stuprano, rubano e bivaccano pisciando sulle aiuole. E infine quelli che subiscono il razzismo, e quelli davanti ai quali l’esistenza del razzismo stesso viene sistematicamente negata.
Siamo sempre oggetto – da toccare, rimpatriare, sfruttare e oscurare – ma mai il soggetto parlante e per rendervi pienamente consci di quanto l’intrattenimento italiano viva di questa sua personale ossessione per il razzismo e l’immigrazione, vi pongo una domanda.
In questi anni di proliferazione selvaggia di talk show politici in tutte le salse e i format possibili, avete un solo ricordo di una persona nera che sia stata invitata ad un salotto buono della televisione, in quanto esperta di razzismo o di fenomeni migratori? E non parlo del personaggio token, messo lì una tantum per dare un sapore più esotico ad uno studio televisivo composto a maggioranza di uomini bianchi ultracinquantenni con la pretesa di voler parlare di razzismo come fosse un’esperienza che hanno vissuto direttamente. Parlo di “personaggi” di giornalisti, di scrittori e scrittrici, di studiosi, di esponenti dell’associazionismo che stanno in prima linea o di intellettuali neri.
Eppure ce ne sono tantissimi in Italia. Esistono e ogni giorno offrono il loro contributo intellettuale in spazi minuscoli dove la loro voce non è amplificata, ma anzi, considerata una rarità.
In Italia esistono neri italiani, cittadini immigrati e persone altamente istruite, che con la sola presenza potrebbero far crollare l’intero impianto culturale e mediatico su cui si basa il tipico talk show che vuole parlare di immigrati senza immigrati. O di immigrati ma secondo una precisa visione che tende ad infantilizzarli o degradarli.
Siamo tutti ostaggio di una narrazione dell’immigrazione che ha un unico colore, e non vuole sentire ragione, né vederne di diverse.
Il razzismo come tema di secondo ordine, come argomento a sostegno delle campagne elettorali e, come “cosa” di cui parlare a tutti i costi per intrattenere il pubblico, alla stregua di un cabaret o di un gioco a premi in cui quello che la spara più grossa vince, sono le uniche alternative che un pubblico non adeguatamente informato ha per farsi un’idea dell’impatto che ha l’immigrazione sulla cultura, l’economia e la politica di un Paese.
Ma in questo gioco al massacro – un gioco tutto politico, mai casuale – nulla è riuscito a peggiorare così tanto la vita degli immigrati quanto è riuscito a fare l’oggetto più amato e odiato dagli italiani.
Sarebbe tremendo e inquietante, guardare un programma tv in cui gli ospiti di due fazioni opposte vengono chiamati a dimostrare o smentire l’esistenza dell’Olocausto. Il solo immaginarlo, mi dà i brividi. Ma mi dà altrettanto i brividi osservare la telecamera, rivedere la presunta me, nera, italiana, figlia di cittadini immigrati, stringersi lungo i confini delle uniche due versioni disponibili del corpo di un migrante o di un immigrato in Italia: quello che viene strappato dalle acque del Mediterraneo e portato in Italia, oppure quello che l’Italia desidera colonizzarla importando criminalità e usi e costumi da “Terzo Mondo”.
In mezzo a queste due fotografie di come vengano percepiti gli immigrati non c’è niente, o meglio qualcosa c’è. Ma è un buco nero in cui vengono risucchiate tutte quelle realtà che non sono funzionali alle storielle che da vent’anni ormai, ci raccontiamo sull’immigrazione. E questo buco non risucchia solo noi, ma l’Italia intera.
Guardo la televisione e non riesco a trovare nulla di quello che conosco o che ho vissuto di questo Paese. Dove sono, mi chiedo. Ma la domanda giusta è dove siamo finiti tutti. Noi. Gli italiani.
Si dice sempre che l’Italia sia un Paese vecchio e incapace di andare oltre le colonne d’Ercole che delimitano quello che si può o non si può dire sul razzismo. Se un certo modo di parlare del razzismo diventasse illegale, orribile e fuori dal tempo e dagli spazi sociali, come lo sono i discorsi a favore della violenza o dell’antisemitismo, vedremmo una televisione a misura d’essere umano. Una televisione interessante, con storie e vite nuove. Una televisione che somigli alla realtà e che la smetta di chiedersi se il razzismo esiste. Perché la risposta è si, smettere di domandarselo, l’inizio, e scegliere di non mutilare più la realtà, la sua degna conclusione.