Il commento
Dopo l’11 settembre la politica occidentale si è alimentata della convinzione dell’implicita superiorità dei suoi valori su quelli altrui. Lo shock afghano svela impietosamente la crisi dell’universalismo democratico
di Renzo Guolo
Una duplice catastrofe, politica e culturale, quella dell’Occidente in Afghanistan. Quella culturale persino più disastrosa di quella politica, poiché tarpa le ali alla spinta propulsiva occidentale non fondata esclusivamente sul potere militare: la vera vittima politica eccellente del ventennale conflitto, dilatato dalla doppia guerra di Bush jr. nel mondo islamico, all’origine dello scacco attuale.
Dopo l’11 settembre la politica occidentale si è retta su un surplus valoriale, costituito dalla convinzione della implicita superiorità dei suoi valori su quelli altrui. La linea dell’esportazione della democrazia, soprattutto nella militante versione originaria neocon, un mix di distorto liberalismo wilsoniano insufflato da residui di trotskismo declinato in chiave di «guerra permanente» per la libertà, evocato dalla stessa espressione enduring freedom, ha scandito idealmente quel passaggio. Sebbene sia stata, nei fatti, abbandonata dalle amministrazioni seguite a quella del presidente dell’attacco jihadista all’America, quella suggestione, pur convivendo con altre parole d’ordine, ha continuato a indicare all’opinione pubblica occidentale un ideale orizzonte mobilitante. L’interventismo post-guerra fredda assume, del resto, maggiore legittimazione in quella cornice. Come sottolinea la stessa enfasi posta in seguito sul ruolo del soft power da accompagnare all’hard power.
Abbagliato dalle proprie convinzioni, l’Occidente ha creduto che il suo impianto valoriale, prodotto di un lungo e conflittuale processo storico, si imponesse quasi naturalmente al suo esterno per evidenza sociale. Tecnica, mercato e democrazia, se non le armi, avrebbero piegato le resistenze ai processi di omologazione. Una concezione del mondo presupposta come universale ma naturalmente etnocentrica. Anche le altre culture, però, lo sono. Dure reazioni identitarie hanno, così, messo in discussione una standardizzazione che nemmeno la globalizzazione, recepita strumentalmente nei suoi aspetti funzionali e riguardante in primo luogo i flussi di merci, poteva portare a compimento.
Lo shock afghano è tale anche perché svela impietosamente la crisi dell’universalismo democratico. Ma che la ricetta occidentale, nelle sue diverse versioni, incontrasse forte resistenze in altri contesti culturali non è certo una novità. La «gloriosa» resistenza dei mujahidin afghani contro i sovietici negli anni Ottanta era già opposizione a sistema di governo percepito come occidentale. Così, giustamente, era interpretato, fuori dalla logica del bipolarismo, il comunismo. Ben lo sapeva Abdullah Azzam, il leader ideologo dei combattenti panislamisti che popolavano i campi del Bin Laden benedetto dagli Usa, che teorizzava sin da allora: «Questa volta è toccato ai russi, poi sarà il turno degli americani!». Pressoché nello stesso periodo la rivoluzione iraniana era caratterizzata da slogan come «Né Est, né Ovest, solo Islam», inneggianti a una «terza via» tra le due conflittuali varianti della cultura occidentale di allora. Ma per uscire dal mondo della Mezzaluna, basta guardare alla Cina che, in cerca di una soluzione alla stagnazione economica e per compiere la sua seconda rivoluzione, non si affida al trionfante liberismo mercatista ma a un capitalismo di Stato sorretto, più che da una dottrina occidentale ormai ridotta a mera facciata, il marxismo, dall’autorità del partito che assorbe in chiave politica l’eredità confuciana.
Non sorprende, dunque, la soddisfatta reazione, fuori dall’Occidente, per la debacle afghana. Siamo nel mondo, ma non il mondo. Qui competono, etnocentricamente e non universalmente, diverse culture e forme di organizzazione politica. Prenderne atto non significa rifugiarsi nella neutralità valoriale o nel relativismo giustificazionista; o, viceversa, inoltrarsi negli oscuri e pericolosi labirinti dello «scontro di civiltà». Semmai essere consapevoli che, in taluni contesti e momenti storici, il conflitto può venire declinato in chiave ostile da componenti attivistiche di una civilizzazione decise a mobilitarsi in nome della politica dell’identità. Se non si mette in conto seriamente questa possibilità, non solo non si pone freno alla tracotanza intrinseca alla hybris occidentale, ma non si mette nemmeno in forma una politica efficace nel difendere e diffondere i propri valori. Dalla lezione di Kabul, che catapulta drammaticamente l’Occidente, e in particolare la sua ripiegata potenza-guida, più che nel tempo della «politica estera per i ceti medi», frutto avvelenato dell’arrembante ascesa del sovranismo interno, nella più problematica «era difensiva», forse qualcosa si può imparare.