La pressione referendaria appartiene alla stessa corrente che spinge a esiti presidenzialistici. Nonostante l’apparenza dica il contrario

La proliferazione di iniziative referendarie è lo specchio impietoso di un processo di de-formazione dell’attività legislativa in atto ormai da decenni in questo Paese, e non solo. Alla crescente, sempre più manifesta incapacità da parte delle Assemblee rappresentative di por mano a norme in grado di ordinare prospettive durature per la soluzione dei problemi, fanno eco, altra faccia della stessa medaglia, proposte parziali, inette a comprendere la complessità di questi stessi problemi, pretesti demagogici, quasi sempre, a caccia di qualche vantaggio elettorale. La proliferazione legislativa, caratteristica italica, su cui competono in nobile disfida Stato e Regioni, proliferazione che si limita a inseguire di volta in volta le emergenze che si impongono, moltiplica così i suoi effetti con «l’iniziativa delle leggi» esercitata direttamente dal «popolo» (art. 71 della Costituzione), e che si va ormai riducendo, quando va bene, allo spazio della denuncia e della protesta.


È evidente il contesto in cui la nostra Carta inquadrava l’esercizio dell’iniziativa referendaria. Il tacito presupposto era che essa risultasse da una meditata e articolata proposta, consapevolmente sostenuta da un cospicuo numero di elettori, o dalla volontà di abrogare una legge o un atto avente valore di legge che già avessero una intrinseca, precisa definitezza, così che il quesito potesse apparire chiaro e netta, inequivocabile, la risposta. Se il regime democratico in quanto tale presuppone un’opinione pubblica informata, e perciò la necessaria esistenza di libere organizzazioni politiche e sindacali, questa nobile «finzione» vale al cubo per l’istituzione referendaria. Qui infatti «il popolo» è chiamato a dimostrare direttamente la propria capacità legislativa, e, per logica conseguenza, quella di giudicare razionalmente l’operato delle Assemblee rappresentative. Si tratta perciò di un istituto delicatissimo, di decisivo rilievo politico e culturale, poiché, in qualche misura, prefigura nelle condizioni storiche date il fine stesso della democrazia: l’auto-governo di cittadini liberi, per i quali il bene proprio è tutt’uno col riconoscimento della dignità e del bene altrui. Lo svilimento di tale istituto a pratiche demagogiche occasionali, non importa da parte di quale setta o fazione, a mezzo di agitazione o propaganda, rappresenta, allora, un vulnus della cultura democratica, non un incidente di percorso.

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C’è da chiedersi però se questa deriva sia arrestabile. Presupposto degli artt. 71 e 75 della Carta era che, in particolare per il referendum abrogativo, le forze interessate a indirlo si mostrassero in grado di organizzare una vasta, capillare mobilitazione, raccogliessero un grande numero di adesioni consapevoli, legalmente formalizzate, attraverso incontri e discussioni pubbliche. Solo i vecchi ormai ricordano le campagne «esemplari» per divorzio e aborto. Quell’agorà è forse scomparsa per sempre. E nulla è più stucchevole della nostalgia. Da questo punto di vista, occorre riconoscere che il grillismo è stato un bagno di realismo. 500.000 firme o anche molte di più non costituiscono più alcun problema, basta sia ammessa la firma digitale, e come non permetterla oggi? Se il quesito è proposto da un influencer anche di mediocre calibro il numero può essere raggiunto senza difficoltà. Quanti referendum potrebbe proporre in un mese la Ferragni? E l’adesione? Attraverso gli «I like», ovviamente. E ovviamente raccolti «a distanza sociale», ognuno di fronte al proprio schermo, bene «assicurato» alla propria più o meno comoda dimora. Il contatto contagia, come è noto. E dove ci si contagia più pericolosamente che in un’antica agorà?


Si tratta perciò di un fenomeno assai più complesso di una semplice conseguenza della regnante confusione normativa e crescente illeggibilità delle leggi. Da un lato la democrazia rappresentativa è sempre più esposta a forze demagogiche che si organizzano proprio sfruttando la potenza dei nuovi mezzi di informazione e comunicazione. Dall’altro, le emergenze che si susseguono in un mondo dove poliarchia e anarchia volentieri si accoppiano stressano i costitutivi limiti che essa incontra per giungere a rapide, incisive decisioni. La prima tendenza diventa sinergica con la seconda rendendola forse inarrestabile. Ed ecco il paradosso: l’apparente richiesta di democrazia diretta si trasforma nel suo opposto: in fattore potente di accentramento dell’attività legislativa nell’esecutivo. Difronte all’evidente incapacità delle Assemblee a dirimere le questioni «di nuova frontiera» (come quella del fine vita, ad esempio), e più in generale e risolvere i nodi decisivi della nostra vita economica e sociale, i referendum agiscono, in ultima istanza, proprio nel senso di esigere un Centro decisore. Più l’adesione a un referendum assume i caratteri de-responsabilizzati tipici dell’«I like», più emerge come suo vero, per quanto inconsapevole, carattere la general-generica richiesta di un superamento delle forme tradizionali di democrazia rappresentativa.


La «pressione» referendaria appartiene alla stessa «corrente» che surrettiziamente spinge a esiti presidenzialistici. Come mascherarla dopo i governi nominati di fatto dal Presidente? E dopo decenni di attività legislativa ridotta alla conversione di decreti? Credo sia giunto il momento di esplicitarla e discuterla. Può darsi che essa non contraddica, anzi, l’esigenza di un riordino delle funzioni e dei poteri del Parlamento. Se questo tema non sarà finalmente posto al centro dell’agenda delle forze politiche, verrà il giorno, o forse è già venuto, in cui ci chiederemo: perché votare presentandoci a un seggio, dopo lunghe campagne elettorali, invece che da un comodo divano, tra una pubblicità e l’altra, cliccando i dati della nostra nuova carta di identità, in cui risulti finalmente tutto di noi: reddito, stato di salute, preferenze, gusti, movimenti compiuti? Che altro conta ormai di ciò che un tempo si chiamava «persona» se non i dati che la compongono e che il sistema economico-finanziario mette all’opera e fa fruttare? Un importante libro del mio amico Maurizio Ferraris, “Documanità”, invita a percorrere questa strada con serena fiducia e disincanto. Dio voglia abbia ragione.