“È una ferita che ancora appartiene a molte persone”. La lettera dallo speciale dell’Espresso

A chi incarna la cosa pubblica, dono il mio primo ricordo affinché si possa rendere agli altri la storia di una vergogna privata.

 

Nel 1998 frequentavo la scuola materna e ogni giorno, appena potevo, nascondevo la mia merenda scrausa, la mia merenda di classe, sotto un mobile di legno scuro con le rifiniture in menta. Compiuto l’atto, ripetitivo ed ontoso, me ne tornavo saltellando al primo banco. Non ricordo bene cosa identificavo come una «merenda scrausa», ma ho memoria vivida che quel fagotto, o quel che era, conteneva al suo interno un’affermazione: «Tu non appartieni qui» e dunque veniva giornalmente occultato.

 

Dopo aver letto la prefazione di Édouard Louis a “Congo Square” di James Baldwin, qualche anno fa, la microplastica di questo ricordo è stata sbloccata e ora me la ritrovo un po’ ovunque. Dalle parole di Louis sono riuscita a identificare che il primo ricordo che ho, la colonna portante, seppur invisibile, della mia vita è stato appunto un trauma di classe. Vede, non importa se io fossi davvero povera (e certo di traumi di classe ce ne sono molto di peggio), conta però, io credo, che la vergogna d’esser poveri sia così viscerale da poter muovere una bambina di tre anni a compiere ripetutamente un atto del genere. La ferita che porta questa storia con sé non è solo mia, essa appartiene alla gente tutta: ai corpi usa e getta di chi lavora per guadagnarsi il proprio posto nel mondo e che metterà al mondo altri bambini che ripeteranno questo stesso rito della vergogna.

 

Se Lei rappresenta l’Unità di questo Paese e non sa come raccapezzarsi nel mettere insieme i pezzi, i dialetti e le genti, io posso sicuramente consigliarLa: abbiamo lo stesso destino di vergogna e rabbia che porta con sé questa cosa pubblica che ci vortica intorno. Le posso dire inoltre che facciamo esperienza comune di un impulso disperato e comune di redenzione, che non intendo in termini religiosi (anche perché non ne avrei gli strumenti), ma che è proprio una spinta verso la miseria degli altri e il disperato bisogno d’esser liberi. E se lo Stato deve proprio esistere cosa deve fare se non alleviare questo peso? Se non spalancare le porte a quest’impulso? Mi chiedo cosa ci sia di pubblico (ancora) nella cosa pubblica e vorrei sapere dove si sfirma per il patto sociale. Perché se le cose pubbliche non appartengono a noi, allora neanche noi apparteniamo a queste.

 

Il mio ricordo di classe, però, vede, appartiene alla gente, e c’è più verità in quella merenda scrausa che in quello che Lei viene a rappresentare. Le mie parole di oggi però non possono essere prediche inutili, il mio ruolo è quello di portare semi e coltelli. Lei ne saprà disporre; io Le consiglio vivamente di scavare una fossa e coprirla di semi: da queste rovine devono necessariamente nascere cose nuove, tenendo a mente che il nuovo mondo si ottiene creando e ascoltando il conflitto e che il più bello dei cieli è quello senza idoli.