La vittoria della Destra che non teme di definirsi tale permette di aprire una riflessione su cosa è o dovrebbe essere la sinistra. Ecco alcuni punti fermi

Poiché la vita ci ha allenato a trovare opportunità anche nei guai, la vittoria del centro-destra almeno un’opportunità ce la dà. Sdogana il termine “destra”, visto che Fratelli d’Italia, partito orgogliosamente di destra, è la spina dorsale della coalizione vincitrice, avendole portato quasi il 60% dei voti raccolti; destra conservatrice neoliberista e destra autoritaria, che cercano una convivenza, come altrove nel mondo. Ma qui ci interessa l’altra faccia della medaglia: l’opportunità di sdoganare, allora, anche il termine “sinistra”.

 

Intendiamoci. Sinistra non è parola che apre magicamente chissà quali porte. Forse fra una parte della mia generazione. Ma suscita sguardi sospettosi in larghe masse di giovani che pure sono in tutto e per tutto impegnati contro le ingiustizie. Non sorprenda. Nascosta dal prefisso “centro-”, quando non irrisa come un rudere, essa è stata usata spesso per coprire azioni che proponevano in realtà la conservazione o il rammendo dell’esistente. Sdoganare la “sinistra”, dunque, non ci interessa per la parola, ma per le idee che ci possono stare dietro. Di questo vorrei dire qualcosa.

 

Perché la possibilità di affrontare le grandi disuguaglianze del nostro tempo, di ricacciare mostri e paure, di ritrovare un rapporto armonico con l’ecosistema dipende da quelle idee, che chiamerò “di sinistra”. Dalla possibilità che, oltre a essere praticate da un vasto fermento di pratiche sociali, imprenditoriali e di vita, a cui continuamente noi del Forum Disuguaglianze e Diversità e moltissimi altri facciamo riferimento, quelle idee divengano il patrimonio dinamico di un partito organizzato, che non c’è.

 

Invece di muovere dai ceppi originari di quelle idee - tanto si capirà subito che il riferimento è all’incontro anti-fascista fra il meglio delle culture liberale, social-comunista e cristiano/sociale-cattolico/democratica, che produce l’idea di “libertà sostanziale” dell’articolo 3 della Costituzione - vediamo di che si tratta. Lo faccio senza pensare di saper fissare qui o altrove i canoni contemporanei del pensiero di sinistra. Ma al tempo stesso convinto, come nel dialogo con Fulvio Lorefice per Donzelli (“Disuguaglianze Conflitto Sviluppo”), che dal pensiero e dall’azione di tanti e tante possiamo ricavare alcuni, chiari tratti.

 

Diciamolo prima in generale. Essere - anche senza saperlo o volerlo dire - “di sinistra” vuol dire osare, e agire per attuare la visione di un modo alternativo, più giusto di vivere. Ritenendo che, di fronte all’entità delle disuguaglianze, al succedersi parossistico di crisi, all’evidente insostenibilità del nostro attuale modo di produzione e di organizzazione della vita, si debba e si possa cambiare paradigma, con urgenza e radicalità; anziché eternamente ricucire, costruire resilienza attorno a una normalità che conviene solo a pochi ed è insostenibile. Questa impostazione generale muove dal recupero di un’idea di noi umani, lontana sia dal grottesco riduzionismo neoliberista, che si inventa la nostra specie come mossa solo dall’egoismo, sia dall’arrogante deriva iper-illuminista, che ci immagina capaci di prevedere e costruire il futuro in modo quasi deterministico. In realtà, siamo intrisi anche di un istinto al mutuo soccorso, alla fratellanza e sorellanza, a comportamenti di reciprocità e dono: il tema è lavorare a costruire dispositivi che ci spingano, che ci rendano possibile valorizzare questa parte di noi, senza nascondere nel cinismo la nostra paura di non riuscirci. Ma nel fare ciò, dobbiamo ricordarci che siamo in grado di prevedere solo in modo assai impreciso l’effetto delle nostre azioni e che i processi di cambiamento non sono lineari e dunque che sempre dobbiamo attrezzarci a intercettare in tempo l’imprevisto e adattarci a esso.

 

Su queste basi possono poggiare tre fra i tratti più significativi di un pensiero e di un’azione personale, collettiva o pubblica “di sinistra”. Prima di tutto, è “di sinistra” considerare primario il riequilibrio di potere come strumento per sanare le molteplici subalternità che si intersecano e compongono nella società: la subalternità di chi controlla solo il proprio lavoro (e non anche il capitale, materiale e immateriale, di cui il lavoro ha bisogno per essere produttivo), delle donne in un contesto che resta patriarcale, dei gruppi etnici minoritari o di recente migrazione, dell’intero ecosistema soggetto alla specie che l’evoluzione culturale ha reso temporaneamente più potente. È questo il tratto di moltissime pratiche e proposte che fanno parte del patrimonio sottoutilizzato del Paese: strumenti per innalzare i salari, per stroncare il lavoro irregolare e precario, per reinserire in società i più poveri o fragili, per eliminare il part-time involontario delle donne, per liberarle da oneri squilibrati e obbligatori di cura, per dare diritti e voce indipendentemente dall’origine etnica, per produrre energia in modo comunitario, per consentire a ogni persona di ragionare sul proprio genere. È questo anche il tratto che rende chi è “di sinistra” avverso a ogni forma di concentrazione del controllo e favorevole, nel mercato, alla concorrenza, nell’agone democratico, al dialogo sociale ad ogni costo. Il che ci porta agli altri due tratti.

 

Essere e agire “di sinistra” vuol dire ritenere e agire affinché ogni forma di conoscenza sia considerata bene primario comune dell’umanità. Ne discende la considerazione dell’educazione come diritto primario da assicurare attraverso un servizio universale pubblico, dalla primissima età, compensando differenze di origine sociale e demolendo stereotipi di genere e “razza”, e lungo tutta la vita. Ma anche la costruzione di dispositivi che garantiscano a tutti e tutte i benefici derivanti dalla ricerca, il contrario di quanto avviene oggi, come la pandemia ha rimarcato, e che consentano un’evoluzione della trasformazione digitale a favore, non a sfavore, della giustizia sociale. Ed ecco qui, di nuovo, pratiche e proposte che vanno in questa direzione: il diffondersi dei patti educativi territoriali, la proposta di dar vita a un’infrastruttura pubblica europea della salute che ricerchi e sviluppi farmaci senza alcuna forma di proprietà intellettuale, la proposta di una revisione dell’accordo internazionale Trips sulla proprietà intellettuale, le idee per dare corpo alla regolamentazione europea sull’uso di dati, pubblici e privati, e di algoritmi, che supera i modelli di Usa e Cina.

 

Infine, c’è il metodo con cui fare tutto questo. Essere “di sinistra” vuol dire credere e praticare il metodo del confronto pubblico aperto, informato, acceso - dove tutti abbiamo voce - e ragionevole - dove si entra nella testa e nella pancia delle persone con cui ti confronti. È un metodo che recupera a un tempo il conflitto, come mezzo fondamentale della democrazia, e il compromesso, come ricerca di un’intersezione possibile fra interessi e visioni del mondo diversi. Attenzione, un compromesso che può venire solo a esito di un confronto in cui si è scavato nelle reciproche contraddizioni, si sono fatti valere e si sono modificati i rapporti di forza, si sono prodotti cambiamenti nelle idee. Poggia su queste basi un disegno e un’attuazione delle politiche pubbliche per i servizi fondamentali che sia a misura delle persone nei luoghi, attraverso una scossa alla rigidità amministrativistica delle nostre norme, alla monopolizzazione dei dati e alla macchina della Pa. Tutto il contrario di ciò che abbiamo visto fare di recente nel disegno e attuazione del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza.

 

Non ci sono volute molte righe né parole per riassumere cosa può voler dire “essere di sinistra” e fare esempi pratici. Si può certo fare di meglio. Ma se fosse attorno a cose come queste che avvenisse da domani il confronto dentro e fuori le diverse formazioni del (centro-)sinistra, forse una luce apparirebbe all’orizzonte.

 

Fabrizio Barca, Forum Disuguaglianze e diversità