Lo stato decide chi ha diritto di sbarcare. Sceglie, con criteri aleatori e arbitrari, chi è degno di salvezza e chi invece può essere lasciato in balia dei flutti. E giustifica questa politica disumana con un gergo burocratico poliziesco

L’idea che sia lecito “selezionare” gli esseri umani significa voler trasformare le banchine dei porti - zone di sbarco, simbolo di sicurezza - nella nuova versione delle rampe novecentesche. Avevamo pensato di non dover mai più sentire quel terribile verbo, di non dover mai più vedere medici incaricati di scegliere sulla base di criteri, tanto aleatori quanto arbitrari, tra chi è degno di salvezza e chi può essere lasciato in balia dei flutti. Chi decide sulla “fragilità”? Come se il capitolo più buio della nostra storia, quello in cui l’essere umano ha perso la sua dignità, non ci avesse insegnato nulla, come se i nostri sopravvissuti non ci avessero ammonito, con le loro parole sofferte e limpide. E invece torna a risuonare, con accenti e termini diversi, quel freddo gergo burocratico-poliziesco con cui si può giungere a parlare di «carico residuale», gravame, zavorra, per la cosiddetta “umanità in eccesso”, i superflui, le scorie.

Migranti
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10/11/2022

La questione è anzitutto etica, sia perché riguarda quel gesto quasi ancestrale dell’ospitalità che, già per gli antichi, era segno di mutuo riconoscimento, sia perché tocca i diritti di coloro che non hanno protezione, che sono lì nella loro nudità e che per questo, non avendo una cittadinanza o una copertura statuale forte, avrebbero invece bisogno di un sovrappiù di soccorso e di tutela. Sta qui il grande tema dei diritti umani, in questo scontro del tutto sproporzionato fra un migrante e uno Stato nazionale. Le organizzazioni umanitarie cercano allora di mediare, puntando a sostenere esseri indifesi. Non saremo mai abbastanza grati a Medici senza frontiere e a tutte quelle Ong che, salvando vite umane, salvano anche la nostra dignità.

 

Lo Stato sovranista è quello che pretende di esercitare senza scrupolo una sovranità imperiosa ai propri confini. Per far valere questo potere biopolitico, potere che consente di vivere o lascia morire, non c’è nulla di meglio che richiamarsi a una selezione e a supposti criteri che dovrebbero essere oggettivi. Non è un caso che proprio questo argomento sia stato uno dei pilastri della propaganda leghista. Quando era ministro dell’Interno Matteo Salvini lo richiamava quotidianamente. Ed ecco che oggi, con la destra al governo, rispunta la logica della selezione.

 

Da una parte ci sarebbero i “rifugiati” buoni, dall’altra i cattivi, i “migranti”, da una parte i veri, dall’altra i falsi. Si distinguerebbe così legittimamente tra coloro che, fuggendo per motivi politici, potrebbero essere accolti e coloro che, avendo lasciato il loro Paese spinti da «mire economiche», o «dall’ambizione di migliorare la loro vita», andrebbero drasticamente respinti. Se “rifugiato” è la categoria che sancisce la salvezza, “migrante” è l’etichetta-frontiera con cui si viene respinti. Clandestino, nemico nascosto, profittatore subdolo, falso rifugiato, né perseguitato né vittima per cui si possa provare compassione o solidarietà, il migrante - termine ormai spregiativo - designa questo nuovo povero a cui è stata tolta anche l’antica dignità del povero. Versione ultima della miseria contemporanea, che oltrepassa perfino l’umiliazione economica, il migrante non esercita nessun fascino esotico. Nella sua nudità, oscura e illegittima, è lo spettro dell’ospite, è lo straniero spogliato della sua aura esotica, della sacralità. Eppure, avrebbe mille ragioni da far valere, mille motivi, spesso intrecciati e connessi, che lo hanno costretto a partire.

 

Da anni si sa che ogni selezione è destituita di fondamento. Perciò si parla già da tempo di “flussi misti” per indicare l’arrivo di migranti che fuggono da guerra, violenza, fame. Si indica con questa formula l’impossibilità di applicare categorie rigide e obsolete. Nei nuovi, innumerevoli conflitti politici, etnici, religiosi, la persecuzione può avere non solo il volto del terrorismo, ma anche quello della siccità. Chi abbandona per questo il proprio Paese potrebbe, a torto, essere considerato migrante economico. Come un rifugiato di guerra potrebbe essere stato mosso anche da un progetto economico, così un supposto migrante potrebbe aver subìto tutta la vita vessazioni politiche. Il criterio dell’appartenenza nazionale, che non è mai stato sufficiente, appare ormai del tutto inattendibile.

 

Ecco perché la distinzione tra perseguitati politici e migranti economici non regge. Sarebbe come sostenere che l’impoverimento di interi continenti non abbia cause politiche. Sfruttamento, crisi finanziarie, fuga dei capitali, corruzione, catastrofi ecologiche non sono motivi meno rilevanti della minaccia personale, della tortura, dell’arresto. Quel criterio antistorico è tenuto in piedi solo da un’ottusa volontà di respingimento.

 

Per affrontare un epocale problema umanitario serve umanità. E occorre politica, non polizia. La logica della selezione poliziesca, che moltiplica le barriere, che incrementa le procedure burocratiche, che favorisce all’esterno campi di detenzione, mostra da tempo tutte le sue falle. Anziché procedere verso una comune politica europea, dove il nostro Paese deve essere protagonista e dare indicazioni, rischiamo di precipitare con il nuovo ministro Matteo Piantedosi, di fede salviniana, in uno scenario da incubo, come quello di qualche anno fa, che avremmo voluto lasciarci definitivamente alle spalle: migranti lasciati per giorni sulle navi, medici a bordo con scopi ambigui, magistratura all’opera, Ong ed equipaggi chiamati sul banco degli imputati come se fossero trafficanti. Il tutto condito con un complottismo da quattro soldi, con cui si parla di «navi straniere», colpevoli di favorire la «immigrazione clandestina», cioè una sorta di invasione infida.

 

Non vogliamo più sentire termini ripugnanti come «sbarchi selettivi» oppure «carico residuale». Né tanto meno vogliamo azioni poliziesche ai nostri porti, a metà tra la piazzata farsesca e il gratuito gesto crudele. Prendere in ostaggio poveri esseri umani per biechi interessi politici è una vergogna. Ma lo è ancor di più, se è possibile, farli passare per corpi estranei, fuori posto, della cui superfluità non si sa come sbarazzarsi. Si risalga presto da questa china pericolosa, da questo abisso inquietante. Non è sulle banchine dei porti italiani che si affronta il problema della migrazione, ma nel consesso di Bruxelles, dove il nostro Paese, con gli strumenti della collaborazione, deve far valere le proprie ragioni e trovare gli accordi necessari. Questa è la strada politica giusta. Non la spietatezza teatralizzata.