La realpolitik fissa dei limiti e dei confini diversi da quelli tracciati dal diritto. Ma per pensare la pace si deve cominciare dal riconoscimento delle ingiustizie mettendosi nei panni degli altri. Da Kabul a Gerusalemme

Sino al 24 febbraio, la Terza Guerra Mondiale, il lancio di una testata atomica, la fine del mondo erano scenari da cinema. La guerra in Ucraina, con le minacce nucleari russe o perlomeno il timore dell’escalation, ha innescato un cortocircuito tra quell’immaginario e la realtà del nostro quotidiano. Questo enorme sconquasso emotivo e cognitivo ci ha fatto prendere delle posizioni antitetiche su come leggere ciò che sta accedendo e su come venirne fuori. Il senso di una storia narrata si capisce da come va a finire, l’invasione russa dell’Ucraina è invece sin da principio una catastrofe e una tragedia. Non esiste nessun modo per riparare tutto ciò che per volontà di Putin è già stato distrutto: le vite, le città, il futuro dell’Ucraina dove la guerra concentrata sulle aree russofone ha colpito anche il pluralismo delle appartenenze avviato in tempi di pace, i residui di democrazia e dissidenza in Russia, e molto di più.

Le guerre dimenticate
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20/5/2022

Come si potrà affrontare l’emergenza climatica in un mondo dove una nuova cortina di ferro ha stravolto le relazioni globali? Come guardare alla mappa mondiale considerandola non solo una scacchiera geopolitica dove si confrontano interessi e attori statuali, bensì l’insieme dei luoghi dove seguitiamo a vivere in una dimensione interconnessa? In Europa scontiamo la dipendenza dalle fonti energetiche fossili, sul Medio Oriente e sull’Africa si affaccia una carestia spaventosa dovuta alla carenza del grano importato dall’Ucraina e dalla Russia. Erdogan ha bombardato Kobane tre settimane prima di esprimere il veto sull’entrata nella Nato di Finlandia e Svezia rendendo assolutamente palese di portare avanti la propria agenda nella piena consapevolezza che la sua posizione gli permette di alzare la posta. La posta in gioco sono i curdi in Siria e in Turchia, gli altri oppositori, possibilmente i milioni di profughi ospitati con il sostegno finanziario della Ue, l‘intera «sfera d’influenza» turca che abbraccia - per esempio - la Libia e la Somalia, paesi dove la violenza è sistematica. I sauditi aumentano le forniture di petrolio ma anche la richiesta di non guardare allo Yemen o all’esecuzione di massa di ottantuno uomini avvenuta il 15 marzo. È uscito di scena l’Afghanistan, il regime di Al-Sisi ignora gli appelli per restituire a Alaa Abd el-Fattah, il più famoso dissidente egiziano, quel minimo di diritti del prigioniero che gli farebbe interrompere lo sciopero della fame entrato dopo 50 giorni nella fase dove la morte è imminente.

 

La violenza fisica e simbolica della polizia di Gerusalemme filmata in diretta durante i funerali di Shereen Abu Akleh ha suscitato una condanna forte anche da parte degli Usa, paese di cui la giornalista palestinese era cittadina, peggiorando una crisi di governo in Israele che va incontro agli interessi dell’ex-premier. Netanyahu è sempre stato in ottimi rapporti con Putin, e così anche Orbán che ora si pone di traverso alle sanzioni Ue contro la Russia.

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La realpolitik fissa dei limiti e dei confini diversi da quelli tracciati dal diritto: annettere la Crimea non fa scalpore, bombardare i civili in Siria è accettabile, partire alla conquista dell’Ucraina è il fulmine che rivela troppo tardi quanto l’imperialismo russo non avesse intenzione di attenersi a quelle regole non scritte. Dice un proverbio yiddish che quando c’è bisogno del brigante lo si tira giù dalla forca. Un brigante è diventato troppo pericoloso per lasciarlo brigare, gli altri briganti grandi medi e piccoli - che in realtà non sono mai andati vicino a nessuna sanzione troppo seria - ne approfittano a man bassa. È desolante? Certo. Ma non servono le accuse di ipocrisia e doppiopesismo e tantomeno una rassegnazione da sudditi mentre siamo cittadini che per ora non rischiano le bombe in testa, la galera, la repressione.

 

Vivere in una democrazia, per quanto imperfetta, resta una condizione privilegiata che consente di informarsi su quel che accade altrove, tenere lo sguardo aperto, magari persino usare questa crisi per un cambio di prospettiva. Renderci conto quanto la nostra libertà e la nostra pace d’un tratto così fragile si reggono sugli abusi di potere vigenti pressoché ovunque non potrebbe farci diventare più attenti e solidali verso chiunque subisce quelle forme di oppressione e con chi vuole liberarsene?

 

L’obiezione sensata è che si tratta di bei principi e valori che però finiscono stritolati dalla brutalità delle logiche di dominio capaci di seminare odio e divisioni. Ma come possiamo pensare che la pace, proprio perché alla fine esige delle mediazioni, non cominci dal riconoscimento delle ingiustizie e, in generale, dal mettersi nei panni degli altri? E poi: adesso che il gioco dei ricatti e delle reciproche coperture è tanto manifesto, non riusciamo a cogliere cosa alimenta quei poteri e come provare a ridimensionarli? Abbiamo accolto in Europa cinque milioni di profughi ucraini in uno sforzo che mette a nudo in quale misura le grida all’«invasione» fossero propaganda razzista agitata con successo dalle destre, spesso con il coinvolgimento della Russia.

 

Forse varrebbe la pena di domandarsi se la guerra contro «la decadenza dell’Occidente», Putin non fosse tenuto ad aprirla prima che a decadere fosse la dipendenza occidentale dall’unica leva economica russa. Pur di staccarci il più possibile da quei gasdotti stiamo rimpinguando altri briganti, eppure dovremmo esserci scottati quel tanto che basta da non ripiegare sull’antico cinismo pensando che sia la soluzione. La stabilità e la sicurezza hanno un prezzo, così ci hanno fatto credere, e non esistono alternative. Ma nonostante il prezzo versato - non da noi - le abbiamo scoperte così precarie da rivelare che altrove hanno sempre significato arbitrio, violenza, instabilità, insicurezza. Ora che l’enorme destabilizzazione mostra il suo potenziale devastante al punto da collidere con la minaccia della sopravvivenza della nostra specie, può darsi che l’irrealistico coincida con ciò che è ragionevole. Il pensiero che non ci salveremo da soli su questo pianeta vendendo la pelle degli altri al miglior offerente.