Lo scontento che hanno saputo intercettare non è certo diminuito. E chi pensa sia finito il populismo, forse farebbe bene ad aspettare

Fare previsioni in politica è un esercizio rischioso per chi ci tiene alla propria rispettabilità intellettuale. Siamo tutti in qualche misura ingannati dall’illusione di continuità su cui si regge il modo in cui descriviamo la vita quotidiana di una democrazia rappresentativa. Parliamo dei partiti come se fossero individui, dotati di un proprio carattere e di una propria identità, che ci consentirebbero di ascrivere a essi strategie e tattiche, e di tracciare nel corso del tempo il successo che hanno avuto in un ambiente in cui tutti competono con i propri simili per assicurarsi le risorse necessarie per la sopravvivenza.

 

In realtà, i partiti sono degli “oggetti” molto strani, che riescono indubbiamente a mantenere un qualche grado di unità anche in presenza di strutture organizzative non sempre ben definite, e di identità vaghe e suscettibili di diverse interpretazioni da parte di vari agenti: esterni e interni al partito stesso. Se dovessimo collocarlo su una scala dell’indeterminazione dei caratteri politici identitari, il Movimento Cinque Stelle sarebbe probabilmente molto lontano dall’area dello spettro in cui si collocherebbero molti dei partiti novecenteschi. Nata come un movimento di opinione, che per certi versi assomigliava a un’associazione di consumatori, la formazione oggi guidata da Giuseppe Conte è sopravvissuta, e ha fino a un certo punto prosperato, in una situazione in cui i partiti che avevano dominato la vita politica della seconda repubblica erano entrati in crisi, e nessuna chiara alternativa si affacciava all’orizzonte. In questo contesto peculiare, il movimento ha raccolto istanze che venivano in parte dalla sinistra e in parte dalla destra, riproponendole, spesso in una forma semplificata, dentro un modulo argomentativo tipico del populismo: la contrapposizione tra “noi” e “loro”. Tra i tanti che sono esclusi dal potere e dalle opportunità, e i pochi che invece godono delle seconde perché abusano del primo.

 

La sensazione di avere a che fare con un sistema politico bloccato, dove la differenza tra sinistra e destra era sempre meno chiara, ha spinto molti scontenti ad accogliere questi tratti non ortodossi del M5S come dati di novità che potevano offrire una speranza di rinnovamento per il futuro. Le liste “grilline” ebbero un certo successo sia sul piano delle elezioni amministrative sia su quello delle politiche. Tuttavia, è proprio alla prova del governo, che il movimento comincia a entrare in crisi. Nelle aule parlamentari, o seduti ai banchi del governo, i rappresentanti del M5S trovano sempre più difficile far credere ai propri elettori di essere dalla “nostra” parte e contro “loro”. Anzi, alcuni dei “capi” (in un movimento che si riprometteva di non averne), sembrano provare un certo gusto nell’entrare a far parte di quella stessa élite che il movimento era nato per abbattere, nel parlamento che avrebbero dovuto aprire come “una scatola di sardine”. Oggi, all’indomani delle elezioni amministrative, con un M5S che appare indebolito, c’è già chi ne prevede la prossima dissoluzione, e addirittura celebra, con l’estinzione degli ex rivoluzionari, la fine del populismo.

 

Previsioni avventate. Un po’ perché, come dicevamo, si comparano oggetti dai contorni instabili. Elezioni politiche e amministrative, tenute in momenti diversi, con un quadro di offerta politica e una situazione sociale diversa. Ma anche perché l’ascesa del M5S, e il suo indiscutibile successo elettorale (nonostante un gruppo dirigente tutt’altro che brillante) si spiegano perché esso aveva intercettato, e in parte intercetta ancora, una scontentezza diffusa nei confronti dei partiti preesistenti, di sinistra e di destra, che certamente non si è dissolta, anzi sembra aumentata di recente per via di una situazione internazionale sempre più instabile e preoccupante.