Analisi
Interrompere l’agenda Draghi sarebbe la catastrofe. Ma i partiti vorranno parlare d’altro
La strada è segnata dalle emergenze. Inflazione, recessione, guerra. Le contrapposizioni saranno tutte in chiave ideologica. paranoia e demagogia sugli immigrati. declamazioni su diritti e valori. ma nessuno dirà come e cosa vuole fare
La campagna elettorale è iniziata in perfetta continuità con quella già in atto, ma che si cercava di nascondere sotto gli slogan di unità nazionale, e che ha portato alla fine del governo Draghi. Tutto si può dire della “politica” italiana fuorché accusarla di incoerenza. Anche forma e contenuti sembrano non differire dalle campagne passate. Tornano a fiorire le promesse comportanti aumenti di spesa senza alcuna indicazione concreta, calcolata di copertura. Quale politica fiscale in grado di corrispondere al vertiginoso aumento del deficit? Patrimoniale? Revisione del catasto? Spending review seria? Riforma del sistema amministrativo che grava su ogni impresa economica? Nessuno ne parlerà. Tutti invece parleranno di difesa dei nostri redditi, miglioramento e aumento dei servizi, e altri nobili obbiettivi, come se con questi si contrastasse inflazione e recessione alle porte.
Per il resto l’agenda è scritta chiunque vinca. La stessa abile Meloni dà mostra di averlo compreso. L’agenda Draghi non può non continuare la sua strada pena la completa catastrofe. La nostra già limitata sovranità oggi lo è al quadrato. Agli storici discutere le cause di un tale destino, ma la verità è questa, nuda e dura. Per continuare ad avere i fondi europei e il relativo permesso a indebitarci senza andare in default dovremo rispondere agli imperativi delle Autorità europee (e dei mercati finanziari), passare il loro esame, non solo sotto il profilo dei conti, ma anche rispetto a quello della credibilità politica. Può darsi che qualsiasi partito o movimento possa superarlo, ma è certo che lo deve. Si potrà forse procedere per un po’ chiacchierando sul piano di quelle che una volta si sarebbero dette “riforme di struttura”, ma non su un realistico piano che consenta almeno di sostenere l’aumento del costo del debito. A questo capitolo obbligato dell’agenda del futuro governo si aggiunge oggi, ancora più drammatico, quello della guerra. Anche a questo proposito, la discussione su cause e responsabilità è cosa utile e onesta, ma non evita il problema: l’Italia si trova oggi all’interno di un Grande Gioco geo-politico che le permette margini minimi di scelta. Pena l’aggravare la sua stessa situazione economico-finanziaria. Ci sarà chi lo dice felice e chi lo dice magari disperato. La realtà non cambia.
Il grande pericolo consiste nel fatto che proprio di tutto ciò si taccia in campagna elettorale e che dunque non si giunga a definire alcuna intesa, alcun programma di governo. Ritrovandoci dopo il voto come nel 2018, con Mattarella costretto a insediare governi “tecnici” o “di emergenza”, o, peggio, governi formati da chi mai ha governato neppure nel paesello natio. Ecco, allora, che, al di là delle promesse di nuovo Welfare che saranno nelle corde di tutti, le differenze e contrapposizioni emergeranno in una chiave tutta ideologica. Tra paranoia su sicurezza, integrità etnica, demagogia irrealistica sul fenomeno dell’immigrazione, da una parte, e giustizia, diritti umani, politically correct, dall’altra.
I primi si guarderanno bene dallo spiegare come se la caverebbe la nostra economia senza immigrati; i secondi non ci diranno attraverso quali leggi, quali norme positive svolgere il tema dei diritti umani, che altrimenti rimangono appunto nient’altro che un appello politicamente vuoto alla Giustizia. Il loro combinato disposto farà sì che l’immigrazione continuerà inevitabilmente (magari con qualche altra nave bloccata al largo da Salvini, se tornerà ministro) e anarchicamente, poiché non sostenuta da una politica di integrazione. Con i pericoli che ciò comporta anche sul piano dell’ordine sociale.
Peggio ancora se la campagna dovesse assumere anche i toni del “pericolo fascista”,da un lato, e dell’ “esproprio comunista”, dall’altro. Mettiamo definitivamente da parte questa sciocca propaganda. Per gli stessi motivi che limitano di fatto la sovranità dei singoli Stati europei non sussiste la più remota possibilità di ritorni a regimi autoritari del tragico Novecento. La crisi delle democrazie rappresentative apre a ben altri scenari: non “dittature della maggioranza”, che presuppongono la centralità delle assemblee parlamentari, ma concentrazione nell’esecutivo del processo decisionale; l’affermazione di una idea “tutelare” dello Stato, fondata sul capillare controllo dei comportamenti individuali che le nuove tecnologie consentono; neutralizzazione del conflitto sociale e politico, che è lo spirito stesso della democrazia; conformismo universale esaltato come senso della misura, prudenza, tolleranza. Lo stato di emergenza, che si va trasformando in stato tout-court, a questi esiti, da anni ormai, sembra inarrestabilmente condurre. Leggerli secondo vecchi schemi serve soltanto a disarmare ancora di più nei loro confronti.