Combattere l’aumento dei prezzi con il rialzo dei tassi d’interesse porta al rischio di stagflazione. Una scelta infelice. Al contrario, le politiche della Fed assecondano le esigenze dell’economia americana

Agli inizi del 2022 le banche centrali hanno cominciato a studiare in che modo arginare la fiammata dell’inflazione, dovuta a una repentina ripresa della domanda aggregata, non controbilanciata da una parallela offerta. Ma dal 24 febbraio per l’Europa si è scatenato l’inferno con l’aggressione della Russia all’Ucraina. L’inflazione nell’Ue, pertanto, da congiunturale si è trasformata in strutturale perché i prezzi del gas e del petrolio sul mercato di Amsterdam sono saliti in un crescendo rossiniano di più del 300 per cento.

 

Un effetto della combinazione tra la speculazione e la crisi delle relazioni che ha investito l’Ue e la Federazione russa, conseguenti, appunto, alla guerra in Ucraina. Non si tratta più, quindi, di un aumento dei prezzi derivante dall’asimmetria congiunturale tra domanda e offerta internazionali di beni e servizi, ma di un incremento dei costi di notevole portata, difficile da traslare sui prezzi, pena una brusca caduta della domanda aggregata.

 

Al di là dell’impegno dell’Unione europea, anche qualora si arrivasse alla fine della guerra, la sostituzione delle forniture del gas e del petrolio dalla Russia, a prezzi più contenuti degli attuali, non potrà essere conseguita nel breve periodo. Di fronte a un’inflazione da costi di questa natura e dimensione viene da domandarsi se la Banca centrale europea stia facendo una cosa giusta cercando di combatterla con una brutale stretta creditizia, basata fondamentalmente sul rialzo dei tassi di interesse, per portarli al 5 per cento, in modo da riportare l’inflazione al 2.

 

Questa stretta, che ci pare sbagliata, corre il rischio di far passare dal circuito inflazione-deflazione a quello della stagflazione, incidendo sul livello della innovazione tecnologica delle imprese, della produzione e della disoccupazione, sulla riduzione del reddito reale degli impiegati della Pubblica amministrazione, delle pensioni, dei salari e degli stipendi delle attività produttive e sull’indispensabile remunerazione del capitale investito delle imprese, eccetto quelle sotto l’egida del capitale finanziario.

 

Mentre la politica della Federal Reserve corrisponde a esigenze reali dell’economia americana derivanti dall’asimmetria della domanda interna di beni e servizi rispetto all’offerta, quella della Bce è miope perché va in direzione opposta alle esigenze dell’economia europea, laddove sarebbe necessario favorire gli investimenti delle imprese in innovazioni di processo e di prodotto e in quelle infrastrutture, materiali e immateriali, che accrescono la competitività dell’economia.

 

In questo contesto occorre che, almeno a livello nazionale, sia dato ascolto alle richieste di Confindustria e Abi, espresse da tempo, di allungare la scadenza delle rate dei debiti a medio termine ex Covid, che assommano a circa 240 miliardi di euro e che fino a ieri hanno giovato di due anni di preammortamento.

 

Un simile provvedimento consentirebbe di alleviare la situazione di cassa delle imprese, bombardate dai costi dell’energia, raddoppiando la durata residua dell’ammortamento finanziario di detti prestiti mediamente da 5 a 10 anni. Si produrrebbe un miglioramento immediato del cash flow delle imprese, quasi per tutte superiore agli interventi governativi per attutire il costo del gas. È auspicabile che la Bce non frapponga ostacoli.

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