Analisi
Il debito pubblico italiano continua a salire. E sono guai per tutti
La stabilità prevista dal governo si basa su ipotesi poco probabili. E un aumento il rischio di innescare una reazione dei mercati destinata a peggiorare la situazione
L'addio all’approccio «prudente e responsabile» del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, non è una buona notizia per gli italiani, perché un’implicita crescita del debito pubblico è proprio quello che gli investitori internazionali non vorrebbero sentirsi raccontare sul futuro dell’Italia. Quindi allacciamo le cinture.
Come Osservatorio sui Conti Pubblici, abbiamo dato un giudizio piuttosto critico della Nadef, ossia il documento approvato dal Consiglio del Ministri il 27 settembre che definisce il quadro macroeconomico e le linee programmatiche della finanza pubblica per i prossimi tre anni. La ragione è presto detta. Il documento prevede che il debito pubblico dell’Italia rimanga sostanzialmente costante nei prossimi tre anni. Per quest’anno si prevede che il debito del Paese, che attualmente si attesta a 2.859 miliardi di euro, sia al 140,2 per cento del Pil. L’anno prossimo scende - si fa per dire - al 140,1 e nel 2025 al 139,9. Come si vede, le riduzioni sono solo simboliche: per avere un’idea, al ritmo di 0,1 per cento all’anno ci vorrebbero cinquant’anni per scendere di cinque punti di Pil, che è più o meno il livello a cui viaggiavamo prima della pandemia. Le variazioni previste dalla Nadef sono tanto simboliche che il ministro Giorgetti, un politico accorto, non se l’è sentita di dire che ci sarà una riduzione, ma ha parlato di sostanziale stabilità del debito pubblico, dandone la colpa al famoso Superbonus 110 per cento. A tal proposito, è vero che il Superbonus (in compagnia di tutti gli altri bonus edilizi) è un costo esorbitante per i conti pubblici, ma questo -nella sostanza - lo si sapeva già dallo scorso anno e si sarebbe dovuto correre ai ripari nella finanziaria del 2023, scritta proprio dal governo in carica. Invece, si è preferito nascondere la polvere sotto il tappeto, salvo far esplodere il problema nei giorni scorsi, come fosse una questione inattesa.
Peccato, perché proprio Giorgetti nel novembre dell’anno scorso aveva delineato un percorso di riduzione del debito con un approccio che lui stesso definì «prudente, responsabile e sostenibile». Quell’approccio segnò un punto di svolta positivo nei rapporti fra il nuovo governo, i mercati finanziari e l’Europa. Proprio la sua linea politica prudente, aveva permesso allo spread, salito a oltre 250 punti base dopo le elezioni, di contrarsi fino a 160 punti. Mentre ora quello stesso governo, in qualche misura, devia dall’approccio prudenziale e arriva, addirittura, a ipotizzare lo spauracchio di un governo tecnico.
Leggendo un po’ al di là dei numeri, è infatti piuttosto chiaro che nei prossimi anni, a meno di sorprese molto positive, il debito pubblico continuerà ad aumentare. La pur minima riduzione del debito che si legge nella Nadef è dovuta infatti a due ipotesi che difficilmente si verificheranno. La prima riguarda la crescita, che dovrebbe essere più alta di quanto previsto da quasi tutti gli analisti. Soprattutto, dovrebbe essere più alta di quella che si è verificata in Italia negli ultimi dieci o venti anni al netto del rimbalzo di crescita sperimentato dopo la fase dei lockdown. Speriamo che abbia ragione il governo, ma c’è motivo di dubitarne.
La seconda ipotesi è che nei prossimi tre anni si possano fare privatizzazioni per circa venti miliardi. A dire il vero, non è la prima volta che un governo scrive un numero del genere nei suoi progetti di bilancio, ma non si capisce che cosa questo governo abbia intenzione di privatizzare. Invece è abbastanza chiaro dove ha intenzione di aumentare la presenza dello Stato, per esempio puntando 2,2 miliardi su Tim per diventarne azionista. E venti miliardi sono una cifra davvero imponente. Se non si ha molta fiducia in queste due ipotesi, è facile giungere alla conclusione che in realtà il governo sia rassegnato ad accettare un aumento del debito pubblico.
Ma supponiamo che le cose vadano proprio come dice il governo e chiediamoci se una stabilità del debito pubblico - sempre in rapporto al Pil - sia la scelta appropriata, anziché puntare su una sua riduzione. L’argomento principe che viene utilizzato è il seguente: è in corso un rallentamento della crescita e, dunque, non è il momento giusto per ridurre il deficit (ovvero la differenza tra le entrate e le uscite pubbliche) e il debito. Questo ragionamento presuppone che, grazie a una politica di sostegno all’economia, dopo il 2026 (che è l’orizzonte di programmazione della Nadef) l’economia andrà meglio rispetto al presente quadriennio 2023-2026: detto altrimenti, una sorta di età dell’oro della crescita starebbe dietro l’angolo e consentirebbe di ridurre il debito senza grandi sforzi. Se è così, questo ragionamento andrebbe esplicitato e argomentato. Invece, al momento, tutto quello che sappiamo è che le previsioni di crescita del governo (più 1,2 per cento nel 2024, più 1,4 per cento nel 2025 e uno per cento nel 2026) sono piuttosto ottimiste. Lo stesso governo ci dice che la crescita del Pil potenziale - ossia quella che dovrebbe verificarsi in condizioni normali, in assenza di sorprese positive o negative - è pari a circa l’uno per cento all’anno. Dunque, non c’è nessuna età dell’oro dietro l’angolo.
E la domanda che si fanno gli investitori è: quando l’Italia comincerà a mettere ordine nei propri conti pubblici? Guardando all’esperienza degli ultimi anni, e non solo a questo governo, la risposta rischia di essere: «Mai». E se i mercati si convincono che la risposta è «Mai», allora è meglio allacciare le cinture di sicurezza. A maggior ragione dal momento che a partire dal 2025 dovrebbe esaurirsi l’effetto positivo che l’inflazione gioca sui conti pubblici attraverso l’aumento del Pil nominale, che sta al denominatore del rapporto debito/Pil e, in aggiunta, gonfia le entrate fiscali e quindi riduce il deficit. Detto altrimenti, Giorgetti lamenta che i conti pubblici sono appesantiti dal Superbonus, ma è anche vero che l’inflazione aiuta molto a ridurre il debito. In futuro non ci sarà più il peso del Superbonus, ma non ci sarà neanche il copioso aiuto dell’inflazione.
Un altro ragionamento che viene fatto è che la Banca Centrale Europea ha aumentato molto i tassi di interesse (più 4,5 punti dal luglio 2022) il che imprime un impulso restrittivo all’economia europea. Per questo - si dice - le politiche di bilancio devono essere abbastanza espansive per controbilanciare la politica monetaria. Questo ragionamento non è convincente: se i grandi paesi, a cominciare dall’Italia, fanno politiche che controbilanciano la restrizione monetaria, l’effetto finale sarà un’inflazione più alta, il che indurrà la Bce ad esercitare una dose ancora maggiore di restrizione monetaria. Si può non concordare con la Banca Centrale Europea e ritenere che abbia aumentato troppo i tassi di interesse, ma rispondere con un’espansione di bilancio rischia di essere un rimedio peggiore del male: anzi, un rimedio un po’ autolesionista.
Un’ulteriore tesi che viene utilizzata per difendere la scelta del governo è il cosiddetto “argomento del denominatore”. Se il Pil, ossia il denominatore del rapporto debito/Pil, non cresce a ritmi molto elevati è difficile, se non impossibile, mettere il debito su un sentiero discendente. Se fosse così, occorrerebbe davvero mettere mano alla cinture di sicurezza dal momento che, come si è detto, una nuova età dell’oro non è proprio alle viste. E poi non è vero che non si possano migliorare i conti pubblici dal lato del numeratore, ossia riducendo il deficit. Ci sono riuscite decine di Paesi e c’è riuscita anche l’Italia in almeno due occasioni: nella seconda metà degli anni Novanta, ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi ministro dell’Economia, quando bisognava ridurre il deficit fino alla famosa soglia del tre per cento per entrare nella moneta unica, e nel biennio 2007-2008, quando al timone del ministero dell’economia c’era Tommaso Padoa-Schioppa, che riuscì a comprimere la spesa e ridurre notevolmente l’evasione fiscale. Certo, in entrambi i casi le coalizioni che realizzarono il miglioramento dei conti non ebbero vita facile, perché sistemare i conti pubblici non è mai un’azione popolare. È sempre meglio promettere un bonus, uno sgravio, una riduzione di tasse, un aumento di spesa. Ma di questo passo, il debito non scenderà mai.