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Alice Bellandi: «Essere un’atleta non significa per forza vincere»

di Francesca Barra   12 ottobre 2023

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Alice Bellandi

La judoka, 24 anni, ha sperimentato successi importanti e anche sconfitte. Nello sport e nella vita privata. «La stabilità psicologica mi ha aiutata nelle performance, ma mi è servito supporto. Al di là dei risultati, resto una persona»

Alice Bellandi è una judoka di ventiquattro anni e ha già collezionato il titolo di prima donna italiana ad aver vinto gli Europei e i Mondiali junior nel 2018. Ha iniziato ad allenarsi a tre anni e mezzo, a Brescia, dove ha capito che questo sarebbe stato il suo sport pur avendo, negli anni, provato a misurarsi in altre discipline. «Sono stata una bambina molto vivace e all’inizio mi piaceva il contatto fisico, il fatto che potessi muovermi liberamente, stare a piedi nudi, e il fatto che fosse uno sport individuale: la vittoria o la sconfitta dipendono da me». Praticando judo Alice ha trovato il miglior modo per esprimere se stessa. «Quando ero bambina, c’è stato un periodo in cui mi rinfacciavano che fosse roba da maschi, ma questo non mi ha mai frenata».

 

Dopo le vittorie sono arrivate nuove sfide: passare alle classi senior iniziando il percorso olimpico. «Avevo un anno per qualificarmi. Ma erano gli anni dello sviluppo, dovevo calare molti chili per la mia categoria sportiva e questo percorso aveva incrociato anche una fase di vita personale molto delicata: la separazione dei miei genitori, l’ossessione per il peso che ha innescato un meccanismo di autosabotaggio. Trovavo rifugio nel cibo perché mi faceva stare bene nell’immediato, salvo poi farmi precipitare in un vortice di sensi di colpa. Mi facevo schifo ed è subentrata la bulimia. Mi ero trasferita per le gare lontana dalla mia famiglia, ero sola e in più è arrivato il lockdown».

 

Alice in quel periodo ha vissuto in caserma, perché gareggia per il Gruppo sportivo delle Fiamme gialle, ed è lì che un giorno, guardandosi allo specchio, si è data un tempo per risorgere. «Non riuscivo più a vincere. Ho cambiato allenatrice e ho partecipato alle Olimpiadi dove, a prescindere dai risultati, sono riuscita a vivere un sogno. L’obiettivo di ogni sportivo sono le Olimpiadi, anche per me che a venticinque secondi dalla fine, mentre stavo vincendo, ho dovuto affrontare la sconfitta anche al ripescaggio.

 

Ho staccato un po’ di mesi e ho chiesto aiuto. Ho iniziato a essere seguita da una mental coach inizialmente con motivazioni sportive, ma per mesi ho affrontato i miei problemi personali come il legame con mia madre che era diventato conflittuale dopo la separazione con mio padre. Mettere in ordine il personale non più da sola, ma facendomi aiutare, mi ha fatto diventare anche una brava atleta. È importante parlare del supporto psicologico, senza vergogna. Il mio “io” sportivo è andato di pari passo con la mia stabilità personale, ho fatto pace con parti di me stessa con cui ora comunico.

 

Anche comunicare una sconfitta è importante per sdoganare un pregiudizio: quando tu sei atleta, un personaggio pubblico, ti identificano in un vincente. Ma tu sei una persona prima di tutto e come tale hai emozioni, insicurezze e momenti neri. Quando ricevo commenti negativi, critiche da sportivi da divano che parlano di me, mi arrabbio come quando ascolto le telecronache, perché spesso sono fuori luogo. Anche per il pubblico: sei una vittoria o una sconfitta. Sei una guerriera che muore o vive. Io vinco o perdo, ma resto una persona». Manca un anno alle Olimpiadi di Parigi e Alice si sta allenando quattro ore al giorno. Oggi si piace, il cibo non è più un rifugio, ma un alleato.