L’abuso in contesti sempre più ampi, si traduce in una schiavitù di pensiero, in un fanatismo che invece di risolvere l’ingiustizia sociale a volte finisce per fomentarla

ll politically correct nasce negli Usa negli anni ’30 quando si inizia a denunciare l’uso diffuso di espressioni come «nigger» poiché offensive e riferibili al periodo orribile ed incivile dello schiavismo. Successivamente, durante gli anni ’60 e la rivoluzione liberale, il politically assunse una valenza più ampia, divenendo una corrente di pensiero fondata sul riconoscimento dei diritti delle culture e diretta a sradicare dalle consuetudini linguistiche usi offensivi rispetto a qualsiasi minoranza.

 

A partire dagli anni ’80 si comincia però ad abusarne in contesti sempre più ampi, fino a diventare essa stessa una schiavitù di pensiero, nel senso che la minima violazione di un perimetro sempre più largo diventa occasione di assurde polemiche, tracimanti ed insopportabili, che invece di risolvere l’ingiustizia sociale a volte addirittura la fomentano. Di converso in molte occasioni si registra il chiaro intento di essere volutamente «scorretti» per alimentare la visibilità e la viralità della dichiarazione di turno sui social.

 

Tutto ciò per non parlare dell’interesse di multinazionali di creare “casi” per bieche ragioni economiche di social washing, fenomenologia analoga a quella gemella del green washing. Così, ad esempio, qualche anno fa è stato fomentato un aspro e risibile dibattito sull’applicazione del politically correct alla nomenclatura informatica dei termini master e slave, in quanto riferibili alla schiavitù, e per l’effetto la terminologia è stata via via sostituita dai grandi player della information technology.

 

Si tratta di un fenomeno globale che appare inarrestabile, definito in letteratura come la nuova religione civile delle società liberali, diretta a criminalizzare modi di dire, consuetudini, brocardi o storielle che possano lontanamente ferire o intimidire determinate classi di soggetti, cristalizzate per sesso od orientamento sessuale, salute fisica o mentale, alimentazione normale o vegana, opinione religiosa o politica, provenienza etnica o territoriale, appartenenza sociale, economica, sindacale o associativa, e via dicendo. Si pensi alla rimozione degli auguri di Natale nelle scuole o nelle università per non offendere chi non crede in Gesù Cristo.

 

L’attenzione degli aspiranti e sedicenti progressisti si è così lentamente spostata dai veri temi sociali, come l’aumento delle disuguaglianze e l’accesso ai diritti fondamentali, a quelli di carattere prettamente intellettuale. La parola assume in questo contesto una sorta di statuto ontologico autonomo che prescinde dalla realtà e dal pensiero sottostante, quasi che sia meglio parlare bene che fare e pensare bene. L’interesse per le minoranze, i deboli, gli emarginati, diventa così un interesse ipocrita, configurando spesso una posizione di un certo tipo a livello linguistico ma tutt’altra a livello relazionale. La libertà di pensiero viene inevitabilmente compressa, per cui anche i veri liberali si preoccupano ormai solo di parlare secondo schemi indifferenziati, dominanti e consolidati. Mentre appaiono liberi solo quelli che strumentalmente violano il neo-conformismo al fine di fare notizia ed avere successo e popolarità. Di conseguenza, è nata una fabbrica di personaggi politically incorrect che normalmente sarebbero in cerca d’autore e che invece decidono in modo premeditato di uscire dall’anonimato diventando i bersagli di turno, ospitatissimi in contesti dove i cantori del mainstream li usano come punching balls sacrificali.

 

Al contrario, è capitato che persone rispettabili, con storie personali ineccepibili, abbiano in buona fede fatto affermazioni che li hanno condannati all’eterno rogo. Caso emblematico è stato quello di Mario Sconcerti, compianto giornalista sportivo, che un anno fa, poco prima di lasciarci, ebbe l’infelice idea di dire a proposito del calciatore Erling Braut Haaland: «Ha questa faccia un po’ da sindrome down». Basta fare una ricerca sulla rete per accorgersi che la carriera gloriosa di una persona per bene è stata azzerata dal giudizio mainstream e a nulla sono valsi i chiarimenti successivi. L’esperto giornalista dichiarò invano all’indomani: «Mi sono svegliato con il telefono pieno di messaggi contro. Non era mia intenzione, mi spiace. È la conferma che anche quando hai tanti anni di parole alle spalle, non si finisce mai di trovare quelle giuste per dire quello che davvero si vuole». Ma ormai aveva impressa la lettera scarlatta, lo stigma sociale.

 

Questo caso è emblematico, anche perché al di là della gaffe, non si capisce se la frase è stata incriminata perché offensiva verso gli affetti da sindrome di down oppure verso il plurimiliardario calciatore norvegese. Neppure il premio Nobel della Fisica Carlo Rubbia è stato risparmiato quando manifestò una posizione disallineata sul climate change, subendo un’operazione di distruzione della sua immagine, mai più recuperata. Insomma, il politically correct è ormai animato da un’ossessione fanatica che impedisce il confronto razionale e la cui deriva non sembra più avere confini, come per il caso limite del bacio di Biancaneve, stigmatizzato come un abuso del principe nei confronti della ragazza dormiente.