La Manovra non avvia le riforme strutturali reclamate dalla premier ma si limita ad aumentare il debito e a misure economiche di piccolo cabotaggio. Perché l'orizzonte sono le prossime elezioni

Nel discorso di insediamento alla Camera, la presidente Giorgia Meloni ha sostenuto che «le elezioni hanno interrotto una grande anomalia, dando vita a un governo politico. L’orizzonte non è il prossimo anno o la scadenza elettorale, quello che ci interessa è come sarà l’Italia tra dieci anni». Il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 16 ottobre va in tutt’altra direzione. Le misure non sono rivolte ad avviare quelle riforme strutturali tanto reclamate dalla premier per rifare l’Italia. Si qualificano solo per avere un orizzonte temporale di brevissimo periodo: le elezioni europee del giugno 2024.

 

La conferma è data dall’impiego dei 15 miliardi di debito, approvato a maggioranza dal Parlamento. Di fronte a una bassissima crescita economica, il governo avrebbe dovuto destinare una parte cospicua dei denari presi a prestito a interventi di carattere strutturale per assicurare che l’aumento del Pil nel 2024 rendesse meno problematico il nostro debito pubblico. Uno per tutti, il finanziamento del fondo Transizione green 5.0 per agevolare gli investimenti delle imprese. Invece, il governo si è limitato a rifinanziare la legge Sabatini fino al 30 giugno 2024 e a piccoli interventi, come la proroga alla stessa data della sanatoria per il credito d’imposta su ricerca e sviluppo.

 

Le misure economiche sono di piccolo cabotaggio. Il finanziamento fino al 2024 del taglio del cuneo contributivo e della mini-riforma fiscale ne sono la prova. È stata abbandonata la riforma piatta dell’Irpef (flax tax), perno della «rivoluzione epocale» del fisco, secondo le intenzioni programmatiche della presidente Meloni. In una prima fase stupiva il sostegno del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, alle misure economiche della legge di bilancio. Ben per lui che si sia ravveduto. La produttività delle imprese e la transizione ecologica, infatti, non si affrontano con il premio Nobel della meccanica, “il martello”, ma con gli strumenti propri della politica industriale.

 

La mini-riforma fiscale è un beffa, sia per i cittadini poveri sia per il ceto medio basso. È stato ridotto il numero delle aliquote da quattro a tre, contraddicendo la progressività delle imposte sancita nella Costituzione, accorpando l’aliquota al 23% per i redditi da 15.000 euro fino a 28 mila. Viene corrisposta una “mancia” di 20 euro annui a chi percepisce un reddito di 15.000 euro e di 260 euro a chi arriva a 28.000. Al contempo, verranno dimezzate le detrazioni fiscali, avvolte nel silenzio, eccetto quelle per la sanità, per gli interessi sui mutui prima casa e per l’istruzione, il che vanificherà anche gli effimeri benefici a favore dei ceti medio-bassi rispetto a quelli poveri. Il dimezzamento delle detrazioni fiscali incide più sui primi che sui secondi.

 

Alla sanità sono stati destinati 3 miliardi, di cui uno per gli straordinari, enfatizzati per diminuire le liste di attesa. Tale cifra, purtroppo, non sarà sufficiente neppure a reintegrare il taglio subito dal fondo sanitario nazionale a causa dell’inflazione media da costi, superiore al 5%. Dai banchi dell’opposizione, Meloni ha sempre criticato l’enormità della spesa corrente clientelare. Tali invettive legittimavano il pensiero che il governo avrebbe messo mano alla riduzione della spesa corrente e alla sburocratizzazione per reperire le risorse finanziarie al fine di rendere strutturali le misure adottate, che, invece, si perdono nella nebbia dei ricordi.