Capitalismo familiare
Cosa insegna la dynasty Del Vecchio sul capitalismo italiano
Sei figli da tre donne diverse. Nelle scelte del fondatore scomparso un anno fa hanno prevalso le ragioni sentimentali su quelle aziendali. Così la successione si è arenata nel conflitto tra eredi
A distanza da poco più di un anno dalla morte si ritorna a parlare dell’eredità di Leonardo Del Vecchio, imprenditore tra i più eclettici e lungimiranti che il Paese abbia avuto. La capacità di farsi da sé, divenendo artefice del proprio successo, nonché di costruire rapporti improntati a una particolare sintonia con i propri lavoratori, valorizzandone ruoli e prerogative attraverso una serie di riconoscimenti in termini di welfare, sono alcuni dei meriti che gli vanno senz’altro riconosciuti.
All’indomani del decesso, Paolo Chissalè, dipendente e storico componente Rsu, ricordava che Del Vecchio donò azioni ai dipendenti, adottando una rilevante serie di misure assistenziali. Concepì, di fatto, un patto generazionale in cui si percepiva una chiara attenzione alla persona e alle sue prerogative esistenziali.
L’azienda per Del Vecchio, così come per gran parte degli imprenditori che hanno costruito il proprio successo all’indomani del secondo grande conflitto, ha rappresentato una creatura, un figlio, dal quale è stato impossibile distaccarsi fino al momento della morte. Del Vecchio, ancorché avesse superato abbondantemente gli ottant’anni, ha continuato a tenere in mano il timone fino all’ultimo.
Non si è curato – e qui veniamo a una nota dolente – di dar vita per tempo a un concreto ed effettivo passaggio generazionale che, in modo graduale, potesse innescare un cambio progressivo, condiviso e idoneo a scongiurare, all’indomani della morte, il pericolo di fratture familiari.
È ben vero che Del Vecchio – a quel che trapelò all’epoca della morte – si diede carico di redigere un testamento analitico, da un lato lasciando saldamente il timone a persone di comprovate qualità, contemplando cariche manageriali a vita (salva la possibilità di dimissioni); dall’altro, prevedendo una suddivisione delle quote della finanziaria Delfin – cui facevano capo gli asset dell’imprenditore – nella misura del 25% alla vedova e del rimanente 75% ai sei figli – avuti da tre donne – per quote uguali. Inoltre, stabilendo che le decisioni di maggior rilievo venissero assunte almeno dall’88% del capitale sociale, quindi – di fatto – all’unanimità.
Orbene, tralasciando ogni considerazione di natura prettamente giuridica in merito alle scelte compiute, merita di essere posto in evidenza come Del Vecchio, statuendo nel senso prima descritto, abbia manifestato un marcato sentimentalismo, dando prevalenza e rilievo agli affetti rispetto alle esigenze di governance dell’impresa.
Ha inteso perseguire un preciso obiettivo: tenere unite tutte le persone a cui era legato sentimentalmente – tra l’altro appartenenti a «gruppi familiari» differenti – con il rischio, quanto mai evidente per chi si dia carico di osservare le vicende della vita con occhi disincantati, della verificazione di situazioni di impasse difficilmente districabili.
Il difficile gioco dei sentimenti, ancor più quando si combina con gli interessi economici, rischia di generare un paludoso groviglio di tensioni, di rivendicazioni, di conflitti e di richieste. Rispetto a tutto ciò l’interesse aziendale, nella sua oggettività, è destinato irrimediabilmente a passare in secondo piano.
Le vicende venute alla ribalta di recente, con il conflitto insorto tra gli eredi in ordine alla gestione delle questioni successorie, delineano con lampante evidenza uno scenario che, già al momento della morte di Del Vecchio, non era difficilmente preconizzabile. La circostanza che gli eredi – a fronte dell’immenso valore del patrimonio ereditario – stiano litigando sul pagamento delle imposte di successione e sull’adempimento di alcuni legati, la dice lunga sulle difficoltà di realizzare il disegno (sentimentalmente) perseguito dal defunto. Ben può comprendersi l’amaro sfogo di Leonardo Maria Del Vecchio, il quale ha dichiarato di vergognarsi per non essere ancora riusciti a chiudere la successione.
È la riprova dell’esistenza di una precipua esigenza nell’attuale contesto socioeconomico, di cui nondimeno gli imprenditori fanno difficoltà a darsi carico: disciplinare tempestivamente le sorti future dell’azienda guardando alle oggettive necessità future della medesima e, al contempo, lasciando da parte i sentimenti e quell’irrealizzabile desiderio di accontentare tutti i familiari.
Il passaggio generazionale, anche tenuto conto dell’età media dei nostri imprenditori, costituisce una fase cruciale per tantissime imprese, ancor più nella delicata fase di ripartenza che stiamo tentando di innescare all’indomani della pandemia e al cospetto di guerre dagli effetti devastanti nello scenario globale e dagli esiti, allo stato, non facilmente prevedibili. Occorre darsi carico di promuovere un’adeguata cultura e sensibilizzazione rispetto al tema della sopravvivenza delle aziende oltre la vita del fondatore, concentrando ogni sforzo affinché – senza in alcun modo disconoscere i meriti dell’artefice del successo e di tutti coloro i quali vi abbiano contribuito – a prevalere sia l’oggettiva realtà economico imprenditoriale rispetto alle persone fisiche che l’abbiano creata e gestita per un determinato periodo di tempo.
Luigi Balestra è avvocato e ordinario di Diritto civile all’Università di Bologna