Occorre comunicare agli altri la nostra verità, la nostra interpretazione dei fatti per procedere onorando realtà molteplici, cioè la vita degli altri

«Per costruire un mondo a cui si appartiene bisogna trasformare l'esperienza personale in qualcosa di collettivo»

Negli ultimi due anni ho avuto la fortuna di portare, in diverse città italiane, un laboratorio di mobilitazione politica. I laboratori avevano lo scopo di investigare i sentimenti di lotta, per così dire, embrionali. Come, per esempio, la prima volta che si prova rabbia per un’ingiustizia o che si decide di prendere posizione. Dai sentimenti di rivolta embrionali, si passava alla coltivazione della speranza e alla collettivizzazione della rabbia, così come allo scambio di pratiche di cura e alla costruzione di spazi unanimemente concepiti come sicuri. Una domanda che facevo spesso per lanciare il laboratorio era: «Se dovessi portare un oggetto in un luogo per poter dichiarare “questo luogo mi appartiene!” che oggetto sarebbe?». Anche se la richiesta non era così esplicita, è capitato spesso che ricevessi, dai partecipanti, svariati doni.

 

Una volta, qualche minuto prima che iniziasse il laboratorio, una ragazza arrivò da me, tutta goffa e saltellante. Teneva le mani strette a conca, come se avesse catturato una farfalla. Dopo avermi fissato per dieci secondi buoni negli occhi, in attesa di una mia domanda curiosa (che non arrivò, perché ero troppo stupita), mi disse: «Vieni sotto il sole, che ti faccio vedere». Arrivate sotto un raggio di sole ai Giardini Margherita di Bologna, si contorse tutta, come in un gesto antico di vittoria così da slegare le mani più in alto possibile, precisamente nel raggio di sole. Nelle mani non pareva esserci nulla.

 

Delusa, Onda mi disse che aveva catturato quei fiocchi di polvere che si librano nella luce quando ci si annoia. O che comunque si notano solo quando ci si annoia. Per lei, specificò, appartenere a un posto significa potersi dedicare alla noia, così da poter pensare a qualcosa, o non pensare a niente. Onda, consapevolmente o meno, veniva da una lunga tradizione di emarginate, di reiette che cercano un luogo di appartenenza; tradizione che passa per scritti come Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf (1929), ma anche, un paio di volte, per le sorelle Brontë.

 

Forse all’interno della stessa tradizione, nella prima metà degli anni ’80, la rivoluzionaria Audre Lorde scrisse delle domande a sé stessa. Le domande sono adattate dalla poetessa e professoressa Divya Victor ed estratte dal lavoro di Lorde La trasformazione del silenzio in linguaggio e azione, raccolto in The Cancer Journals (1980). Una domanda, per esempio, è: quali sono le parole che ancora non hai? (Per cosa non hai ancora parole?) Che cosa hai bisogno di dire? (Elenca tutte le cose necessarie). Passa anche per il discorso inaugurale della scrittrice, autrice e, per alcuni, teorica cospirazionista, Naomi Wolf, allo Scripp’s College. Il discorso si chiamava, infatti, A Woman’s Place. In quell’occasione Wolf dice: «Chiedetevi “qual è la cosa peggiore che potrebbe accadermi se dicessi la verità?”».

 

È necessario provare a rispondere a ognuna di queste domande, partendo da come e perché costruire una stanza tutta per sé, dove si appartiene. Data risposta alle nostre domande, ogni giorno, con dovizia, iniziare a confrontarsi, fare della nostra esperienza individuale, delle nostre singole risposte qualcosa di collettivo e plurale. Comunicare agli altri la “nostra” verità, cioè la nostra interpretazione dei fatti per procedere onorando realtà multiple e molteplici, cioè la vita degli altri. Accordare queste urgenze è un esercizio tanto utile quanto vitale. Credo che nessun rivoluzionario, ribelle o quant’altro, possa esimersi dal rispondere.

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