Insultare i poveri, il catalogo è ricco: miserabili, debosciati, buoni a nulla, lazzaroni, residui umani, abbrutiti, feccia. Questa non è solo cronaca nazionale. È una storia globale che dura da secoli e ha riscosso un grande successo mediatico, e tra i politici, a partire dagli anni Settanta. (…)
Questa è la storia delle welfare queens, le «regine del welfare». Il nomignolo infamante emerse nel corso degli anni Sessanta negli Stati Uniti dalle colonne del Reader’s Digest e di Look, riviste scandalistiche specializzate in storie sensazionali di madri che «sfruttavano il sistema». Fu adottato, e trasformato in un’arma politica, da Ronald Reagan nella sua prima campagna presidenziale nel 1976. Qualcosa era accaduto nel frattempo. Due anni prima Linda Taylor, processata per rapimento di bambini e sospettata di omicidi non provati, fu accusata di avere usato due pseudonimi per ottenere 23 assegni sociali.(...)
Dalla sua storia criminale è stato estratto un dato secondario, ma centrale per una delle più feroci, e riuscite, battaglie contro l’idea di Stato sociale negli Stati Uniti. Il messaggio era: rubare i soldi dell’assistenza sociale ha la precedenza sui rapimenti e sugli omicidi.(...) Da allora questa forma dell’odio dei poveri ha fatto una lunga strada. Si è incarnato nel fantasma del panico morale che gioca sulle ansie razziste senza evocarle direttamente e ha colpito altri soggetti: non solo lo stereotipo di una donna nera indolente che vive della generosità dei contribuenti, ma anche di tutte le sfumature della povertà che, attraverso i generi, e le appartenenze nazionali, si riproduce nella zona grigia tra il lavoro povero e la deprivazione economica o culturale. In Italia la strategia dell’insulto è stata usata in maniera percussiva sin da quando è stato introdotto il reddito di cittadinanza.
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I beneficiari del sussidio che avessero rifiutato le offerte di lavoro – al tempo il governo Conte 1 ne aveva prospettate addirittura tre, oggi quello Meloni l’ha ridotta ad una – avrebbero perso il sussidio. Ma prima ancora di entrare in questo circuito infernale, mai ancora iniziato in Italia, i beneficiari del reddito sono stati sottoposti a una cura preventiva fatta di insulti. Il 16 settembre 2018 l’allora vicepremier e ministro del lavoro Luigi Di Maio (Movimento 5 Stelle) parlò del «divanista»…
Più contundente è stata l’idea di definire il reddito di cittadinanza come un “metadone di Stato”. L’espressione è diventata una consuetudine lessicale diffusa in Fratelli d’Italia prima di arrivare al governo. La pronunciò la prima volta Giorgia Meloni il 5 settembre 2021 a Napoli. Lo stigma era basato su un’atroce equivalenza: chi è povero è un drogato, in quanto drogato è malato, il povero malato è una patologia sociale. Per curarla bisogna recidere le cause, cioè lo Stato equiparato a uno spacciatore di eroina. L’eroina era associata, in maniera allucinatoria, al reddito di cittadinanza. L’insulto si regge su un’equivalenza aberrante ed è il frutto dell’ignoranza. Il metadone previene i gravi problemi correlati all’assunzione di oppiacei e serve a contrastare la dipendenza.
L’espressione è stata invece usata in senso opposto: non allunga la vita, ma porta alla morte. La metafora tossicologica del reddito di cittadinanza è stata una forma dell’odio di classe. Lo Stato non deve rendere dipendenti i poveri, ma disintossicarli eliminando la dose mensile del sussidio. Lo stesso sussidio va elargito alle imprese che però non sono considerate «tossicodipendenti». Oggi l’insulto ha raggiunto il risultato: confermare il fatto che le imprese sono soggetti giuridici più reali delle persone in carne ed ossa. E che lo Stato sociale, quando non è uno spacciatore di sussidi ed è “in salute”, mette i poveri al servizio del mercato. Il loro benessere dipende dalla capacità di realizzare profitti da parte degli imprenditori.