Nella fragile democrazia italiana, la riforma in senso presidenzialista preoccupa. Un libro confuta le tesi a favore: potrebbe aprire le porte a una torsione autoritaria

«In fin dei conti il sistema presidenziale non è un male in sé», sentiamo dire con preoccupante frequenza.

 

In genere chi lo dice pensa a Stati Uniti e Francia: ecco, intanto respingiamo questo piano del ragionamento e non solo perché è vero anche il contrario. Esistono cioè Paesi in cui l’elezione popolare del presidente coincide con tratti fortemente, drammaticamente autocratici, dall’Ungheria alla Russia e alla Turchia.

 

Del resto, può una formale impalcatura giuridica contenere ed esaurire la questione del modello di società, di giustizia sociale e del rispetto dell’individuo? Evidentemente no. (...)

 

È ovvio, dicevamo, che anche forme di governo e sistemi costituzionali diversi dal nostro sono democratici come si intende in Occidente. Ma questo non ci basta affatto per fare a pezzi la nostra Carta. Eppure questa via è stata preannunciata ed è facile prevedere che verranno allestite grandi manovre per ammaliare pezzi di un’opposizione sbandata, già in passato alle prese senza successo con laboratori di scrittura chiamati Bicamerali: uno di essi ha tentato di “cucinare” un modello semipresidenziale alla francese proprio come quello richiamato alle Camere da Giorgia Meloni in occasione del voto di fiducia al suo governo (24 ottobre 2022): volete che qualcuno non si faccia allettare dalla nuova avventura? Sono già pronti gli amici del Sindaco d’Italia! Ebbene, c’è da essere estremamente preoccupati in un Paese dalla democrazia fragile e incompiuta, dove, anzi, potrebbe essere un abile espediente per una torsione autoritaria del nostro sistema politico.

 

Se vogliamo poi guardarla dal punto di vista di chi invoca solo stabilità e continuità dell’azione del governo, senza nessun compiacimento autoritario, davvero avere un presidente incollato alla sua sedia per un certo numero di anni è una garanzia? Ovvio che no.

 

Basta guardare alla instabilità di un Macron, eletto da una maggioranza risicata e con un Parlamento che gli si contrappone, o la britannica Truss, passata per Downing Street per soli quaranta giorni, o il vecchio Biden traballante sulle sue gambe e al Congresso: il costituzionalista Massimo Villone lo spiega lucidamente: «Si tratta di proposte [presidenzialismo o semi, NdA] che riflettono un pensiero politico e istituzionale invecchiato, basato su modelli di società che non esistono più… La stabilità dei governi? Vuole dire non capire che i modelli di elezione diretta davano un rendimento alto in società diverse da quelle odierne, più coese, nelle quali le competizioni elettorali si vincevano al centro. Ora le società sono radicalizzate e divise, l’elezione diretta si vince andando non al centro ma alle ali estreme. Richiamare quei modelli ora significa che non si è studiato abbastanza. Oggi c’è bisogno proprio del contrario. La frammentazione e la radicalizzazione richiedono un sistema parlamentare che stempera i contrasti e li porta a sintesi».

 

Perché dunque questa ossessione di dare all’Italia una faccia presidenziale, di comprimere un intero popolo su un solo volto? Proprio qui, abituati come siamo a un presidente della Repubblica che è capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale (articolo 87 della Costituzione): non rappresenta il popolo. «Il popolo non può essere rappresentato da un solo uomo».

 

La pluralità degli orientamenti sociali è rappresentata nelle Assemblee parlamentari elette: perciò nel nostro ordinamento introdurre un presidente eletto direttamente con una maggioranza espressa nelle urne sarebbe una stortura, l’abbandono di una figura che esercita l’unità del Paese senza essere schiacciata dalla forza di una maggioranza.

 

Per quanto destinata a crescere dalla forza delle cose, se la capacità di scelta dei partiti è fortemente indebolita – lo abbiamo visto nei casi di rielezione di Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella – la figura del presidente non è affatto notarile, tanto che secondo una analisi della rivista Limes, il Quirinale rappresenterebbe, anzi, il cuore del nostro Stato profondo, il luogo centrale della «burocrazia strategica».

 

Il presidente, ad esempio, autorizza l’emanazione dei (sempre più invadenti, per altro) decreti-legge del governo: per quanto la prassi e lo spirito costituzionale riducono al minimo la possibilità che il capo dello Stato intervenga nell’attività dell’esecutivo, tuttavia ricordiamo bene il rifiuto di Giorgio Napolitano di firmare il cosiddetto decreto “Englaro”, quello con cui Silvio Berlusconi, all’epoca presidente del Consiglio (febbraio 2009), pretendeva di stracciare una sentenza della Cassazione che autorizzava, in certe condizioni, come erano quelle nelle quali viveva la giovane Eluana Englaro, la cessazione dei trattamenti sanitari vitali. Il capo dello Stato stoppò il tentativo odioso di strumentalizzare quel povero corpo infermo da parte del governo di turno e non cedette al ricatto – «sarai l’assassino di Eluana» – di firmare il decreto. Fu un caso clamoroso e significativo delle funzioni non ordinarie della figura del capo dello Stato secondo l’architettura costituzionale italiana: cioè un’espressione di garanzia suprema che sarebbe completamente superata da un voto diretto che lo renderebbe il candidato espressione di un partito o di un movimento che inevitabilmente sarebbero schierati e mobilitati a suo sostegno.

 

Naturalmente verrebbe giù tutta la struttura dello Stato: quel presidente non potrebbe più eleggere i giudici della Consulta (oggi cinque), né presiedere il Consiglio superiore della magistratura.

 

Per non dire delle conseguenze sui suoi poteri di scioglimento del Parlamento: tutto dovrebbe essere sovvertito, e la Consulta, intervenuta in passato contro leggi-truffa (ad esempio la Gasparri sull’emittenza), salterebbe in aria.