La promessa del "nuovo che avanza" si è rivelata falsa. Il nostro Paese è avvitato in una crisi che genera paure e paralisi. La speranza è che arrivi un risveglio collettivo che trasformi il torpore in sana rabbia e, quindi, in spinta politica

Nel 1935 Archibald Cronin pubblica il romanzo E le stelle stanno a guardare, ambientato in un’immaginaria cittadina di minatori. Nella storia ci sono i doverosi sognatori, che saranno sconfitti, un cattivo, Richard Barras, proprietario della miniera, e un supercattivo, il giovane Joe Gowlan, che è destinato a vincere tutto in quanto “nuovo che avanza”, ed è peggio del vecchio. Non molto tempo fa la questione del nuovo che avanza e del rinnovamento generazionale era un progetto politico di, diciamo così, sinistra. Già allora, però, leggendo di coloro che licenziavano i cinquantenni per assumere ventenni, veniva in mente Joe Gowlan e la vera natura del discorso sul nuovo: ovvero, «servono schiavi da sottopagare, con minori tutele e magari minori esigenze». Comunque è andata peggio di quel che pensassimo, come ci ha rivelato una settimana fa il rapporto Censis 2023.

 

Censis ci dice che siamo sonnambuli, «ciechi davanti ai presagi», e che sottovalutiamo processi sociali ed economici che a brevissimo saranno catastrofici. Poi, ci dice che sostituire il vecchio con il nuovo è inattuabile, per il semplice motivo che il nuovo non c’è e non ci sarà. I giovani (18-34 anni) sono oggi poco più di 10 milioni, pari al 17,5% della popolazione totale (vent’anni fa erano il 23%), e nel 2050 saranno poco più di 8 milioni. In quell’anno, inoltre, perderemo 4,5 milioni di residenti (come se Roma e Milano insieme scomparissero) e la spesa sanitaria crescerà a livelli insostenibili.

 

Il fenomeno più grave è però sociologico e riguarda il famoso capitalismo emotivo, o mercato dell’emotività, come lo chiama Censis: significa che nel moltiplicarsi delle emergenze si vive nella continua paura, per il clima, per la crisi, per la povertà e, come sempre, per i migranti, il terrorismo e naturalmente per la guerra. Ma, e questo è il punto, «sono scenari ipotetici che paralizzano invece di mobilitare risorse per la ricerca di soluzioni efficaci e generano l’inerzia dei sonnambuli».

 

Ci si consola, dunque, con i desideri minori: non si ambisce più a un futuro agiato (anzi, quel futuro non si vede proprio, altro che la meta lontana di cui parlava Leonardo Sciascia) e ci si appaga con il culto delle piccole cose e dei piaceri individuali, un bel po’ di cene e apericene e, perché no, un hobby. Forse hanno ragione gli scrittori e gli studiosi di solarpunk, il filone fantascientifico che insegue l’utopia e una visione positiva del futuro, a dire che le distopie hanno colonizzato il nostro immaginario fino al punto di inchiodarci all’eterno presente e all’individualismo. Ma prima delle distopie sono stati gli anni di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan a farlo, e le conseguenze si cominciano ad avvertire in tutta la loro oscurità.

 

Per questo, la cosa preziosa della settimana è Non siamo qui per intrattenervi di Mark Fischer (minimum fax, traduzione di Vincenzo Perna): è il quarto volume che raccoglie gli scritti del blog k-punk dove il filosofo analizza proprio le distopie e la nostra incapacità di inventare il futuro e persino di desiderarlo. Sì, si chiama depressione: la stessa di cui soffriva Fischer, la stessa di cui soffriamo, più o meno consapevolmente, noi sonnambuli. La speranza, diceva però Fischer, è che prima o poi si trasformi in sana rabbia, e dunque in sana politica.