L’opinione
«Il merito e l’inclusività possono stare insieme»
Riconoscere il talento individuale è una ricchezza per tutti. Non lasciare indietro nessuno un imperativo. Ma i due valori non sono in contraddizione
Tutti i gatti di notte sono bigi. Il proverbio riassume un po’ il senso di uno stato di cose che va profondamente rinnovato. Perché fra i gatti che di notte sembrano tutti bigi, la differenza, di giorno, si vede invece benissimo. Un malinteso senso di quella che oggi tendiamo a chiamare inclusività ha portato negli anni a disperdere il senso della differenza e delle distinzioni.
In nome del mantra del «tutto uguale, sempre tutto indistintamente uguale» è stato mandato in soffitta un po’ di tutto, compreso il buon senso. A partire dalla scuola. Dove nei fatti è rimasto inapplicato quanto prevede l’articolo 34 della Costituzione, che – anche nell’interesse del Paese e non solo dei singoli cittadini – continua a stabilire non tanto il dovere dello Stato di sostenere, fra gli studenti, i «capaci e meritevoli» (perfino se provvisti di mezzi e non soltanto ove ne siano privi), ma il loro «diritto» di raggiungere i più alti gradi negli studi. Eppure, ancora nel 2023, si propone di abolire i voti numerici, per gli studenti, con l’argomento che ne potrebbero risentire psicologicamente quelli fra essi che prendano i voti più bassi.
Nel comparto pubblico, da ormai almeno 10 anni, ai più alti livelli le retribuzioni non possono superare un dato importo. Quest’ultimo è ancorato alla posizione organizzativa rivestita da ciascun dirigente: conseguentemente, tutti coloro che raggiungono le più alte posizioni organizzative sono retribuiti nell’identica misura. A ben vedere, la cifra distintiva di un Paese senza troppe ambizioni. Sarebbe come dire, per usare una metafora calcistica, che tutti gli allenatori delle squadre partecipanti a uno stesso campionato dovrebbero essere pagati in modo identico, indipendentemente dalla loro storia personale e quindi dai risultati che hanno raggiunto e possono raggiungere nel corso della loro carriera. Se la legge imponesse questa seconda cosa, genererebbe sicuramente molte polemiche, seppur incidendo soltanto sugli interessi delle singole squadre, mentre la prima, che incide sugli interessi di un intero Paese, non sembra sollevarne abbastanza.
Gli esempi potrebbero essere numerosi, ma il punto di fondo è uno solo. C’è, oggi, un po’ in tanti ambienti, una sensibilità molto forte, pienamente condivisibile, verso il tema dell’inclusività. C’è, allo stesso tempo, un’esigenza – crescente, oltre che non meno forte – di individuare e valorizzare il «merito», inteso come talento individuale. Nelle sfide globali in cui a competere sono ormai gli Stati, nessun Paese, oggi, può permettersi di accantonare la questione del talento individuale, da mettere al servizio di obiettivi e progetti a scala nazionale. Da questo punto di vista, occorre probabilmente tornare al senso più autentico della logica dell’inclusività, che non è e non può essere quella di annullare ogni differenza o distinzione, a dispetto dell’evidenza, ma piuttosto quella di fare in modo che nessuno sia lasciato indietro. Sono due cose profondamente diverse. Scambiare, o meglio confondere l’una con l’altra può costare carissimo, specie a Paesi come il nostro dove il talento individuale, nonostante una certa vocazione al disfattismo,non scarseggia.