Resistenti
La lotta dei sardi contro le basi militari e i poligoni sull’Isola non si ferma
La Sardegna è il luogo più militarizzato d’Europa tra poligoni (anche pericolosi per la salute) e basi. La protesta degli abitanti ;è una battaglia contro i guasti dell’industria bellica
Gli appunti che tengo per il 25 aprile sono molteplici e debitamente onerosi: ogni anno cercare di riscrivere una definizione di antifascismo che sia alla portata dell’idra di fascismi che ci attornia. Tra tutti, l’avvicinarsi della mobilitazione del prossimo 28 aprile, a Dèximumannu (Decimomannu) in Sardegna, mi fa sottolineare con forza a penna: l’antifascismo è antimilitarismo, l’antifascismo è contro ogni imperialismo. Un modo utile per sciogliere i nodi dei sillogismi che abbiamo, coscienziosamente, scolpito sulla pietra, è ripercorrere la resistenza sarda.
Per farlo, un filo da seguire inizia nel 1969, con la rivolta di Pratobello, in cui la popolazione locale si oppose, con successo, all’occupazione dell’esercito italiano per delle esercitazioni militari. Da lì, non si è mai spenta la resistenza per la liberazione del territorio sardo, contro l’esercito italiano e la Nato. Al momento attuale, sono 37.374 gli ettari militarizzati sull’isola, con annessa un’occupazione e un inquinamento aereo e delle falde acquifere incommensurabile. Non c’è luogo, in Europa, più militarizzato della Sardegna. Il 65% del demanio militare italiano, ovvero delle opere permanenti adibite a difesa nazionale, è sull’isola. Tra le varie «servitù militari», come si dice in gergo, troviamo i due poligoni più grandi d’Europa: a Teulada, con un’estensione di 134 km quadrati, ovvero più dell’intera città di Cagliari.
A Salto di Quirra c’è invece un poligono sperimentale che ha visto lanci di missili al torio, notoriamente radioattivi, famigerato luogo, infatti, di sfacelo sanitario: la cosiddetta sindrome di Quirra. Si aggiungono la basi di S’Ena Ruggia, di lago Omodeo e di Capo Frasca; l’ultimo di 1.500 ettari, con appunto l’annessa base di Decimomannu, con uno spazio aereo gestito dall’Aeronautica italiana in ambito Nato; oltre che un numero indefinito di basi «segrete» di cui non si conosce la superficie esatta né le attività svolte. In Sardegna, durante le esercitazioni viene utilizzato un numero equivalente all’80% del munizionamento totale sparato sul territorio italiano. Storicamente, la povertà e la marginalità sociale sono state strumentalizzate dal governo e le amministrazioni locali per tentare di piegare una popolazione alla militarizzazione e alla colonizzazione delle risorse.
Ricordiamo con imbarazzo la dichiarazione dei generali che lodavano, qualche mese fa, le esercitazioni Nato in Sardegna, per le «straordinarie opportunità per il turismo e le lavanderie» offerte all’isola. La repressione nei confronti di chi lotta per la propria terra non si fa mai attendere: in ambito del processo Lince, sono sotto inchiesta 43 attivisti appartenenti al movimento sardo contro l’occupazione militare con diverse accuse, di cui cinque con aggravante di terrorismo (270 bis), per le lotte tra il 2014 e il 2018.
È devastante l’uso da parte dell’industria bellica del territorio sardo, terra dove viene delocalizzato il coinvolgimento italiano nei conflitti mondiali e dove viene occultata e invisibilizzata la responsabilità delle guerre imperialiste e la scelta, giornaliera, di foraggiare gli eserciti a scapito di territori che non dovrebbero appartenere a nessuno se non a chi li abita. La speranza è nella prassi sarda, narrata nella canzone, in sardo nell’originale, della rivolta di Pratobello: «Non banditi, ma partigiani hanno dimostrato ai capitalisti che solo con il bastone e con le mani Orgosolo manda via i fascisti».